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May-Trump: sfida sulle tasse

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Europa

May-Trump: sfida sulle tasse

  • –Leonardo Maisano

londra

Non dice 15%, ma lascia intendere di poter arrivare fin lì. Impegnata ad accontentare tutti, attenta a non sfidare il consenso, la signora premier Theresa May, si lancia in un’ ecumenica gimkana fra promesse contrapposte, svelando che la sua via per limitare i danni della Brexit passa per una fiscalità agevolata. Davanti alla platea degli imprenditori iscritti alla Confederation of British Industry, Theresa May, promette la corporate tax “più bassa del G20”. Londra, ormai prossima a raggiungere la soglia del 17%, si sente minacciata da Donald Trump che va sventolando il 15% così, per associazione logica, c’è già chi legge nel pensiero uscito da Downing street la determinazione a raggiungere quella nuova soglia. L’ufficio del premier si affretta a liquidare come «congetture» considerazioni del genere. Domani nella prima finanziaria post Brexit il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond sarà, forse, più netto, lui che fino ad ora ha visto con grande sospetto un taglio eccessivo dell’imposta sugli utili delle imprese.

Ieri era il giorno della Cbi, ovvero l’ora delle rassicurazioni per un mondo che è stato piallato dall’esito del referendum – le imprese erano e sono in netta maggioranza schierata con Remain - e quel che più conta dalla vaghezza del cammino intrapreso da Londra subito dopo la consultazione del 23 giugno. E Theresa May ha voluto rispondere al primo timore degli industriali che, fra hard Brexit e soft Brexit, scelgono una smooth Brexit. Un’uscita dolce dall’abbraccio comunitario. La signora primo ministro lo ha garantito: non ci sarà uno strappo traumatico. «So bene – ha detto - che la gente non vuole ritrovarsi sul ciglio di un precipicizio (al termine dei due anni di negoziato con l’Ue n.d.r) e che vuole sapere, con margini di sicurezza, come le cose andranno a prendere forma. Questo è parte del lavoro che stiamo facendo». Si tratta di un esplicito riferimento al cosiddetto “transitional agreement”, l’intesa-ponte fra Londra e Bruxelles per evitare che una rasoiata secca, dopo due anni di trattative, escluda il Regno Unito dall’Unione, esponendolo ai rischi di un mondo nuovo. Il passaggio dovrà essere graduale, quindi, nella volontà espressa dalla premier.

Se con queste parole Theresa May ha un poco corretto quel “Brexit significa Brexit”, interpretato dai più come una marcia senza ammortizzatori verso l’uscita dall’Ue, con un’altra puntualizzazione ha attenuato i timori che aveva lei stesso suscitato nell’imprenditoria del Regno. Nel corso del congresso Tory di ottobre dichiarò l’urgenza di «riformare il capitalismo», indicando, fra i passaggi di corporate governance da riconsiderare, l’ingresso dei dipendenti nel board delle imprese. Ieri ha escluso il modello tedesco per il futuro delle società britanniche. «Il nostro sistema di consigli d’amministrazione unitari ha sempre funzionato bene», ha detto, suggerendo che la voce di lavoratori e consumatori potrà essere ascoltata inserendo rappresentanti in “advisory council”, non direttamente nel CdA. I sindacati non hanno apprezzato quella che considerano una piroetta rispetto agli impegni già presi.

La signora primo ministro ha insistito nel corso del suo intervento sull’importanza di un’industria avanzata tecnologicamente e per questo ha garantito 2 miliardi all’anno di investimenti aggiuntivi per Ricerca e Sviluppo, un passo in più per rompere la resistenza delle imprese verso la sua strategia politico-economica.

Il passaggio chiave è, e resta, tuttavia, il negoziato con Bruxelles sui termini dell’uscita dall’Ue e in particolare sulla patrtecipazione al mercato interno. Una prospettiva zavorrata da un gigantesco punto interrogativo che la retorica della politica cara a Theresa May non ha aiutato a chiarire. «Voglio un accordo che funzioni al meglio per il Regno Unito, un accordo che funzioni al meglio per le imprese del Regno Unito», ha detto. Davanti alla platea della Cbi era difficile esprimersi diversamente e resta sempre da capire per quale via passi l’intesa ottimale vagheggiata. È opinione comune che incroci l’adesione britannica al single market, prospettiva che Theresa May non ha mai detto di volere abbracciare.

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