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Londra: 70 miliardi il costo di Brexit

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Londra: 70 miliardi il costo di Brexit

  • –Leonardo Maisano

LONDRA

La crescita si contrae e l’indebitamento sale. Il mondo del dopo Brexit regala un’immagine scontata dove, tuttavia, non compaiono nuovi tagli al welfare, ma la dilazione nel tempo di un risanamento che non si completerà più, come previsto, nel 2020. Quell’anno Londra doveva essere in surplus di bilancio e invece avrà scoperto di aver aumentato, in un quinquennio, il proprio debito di 122 miliardi di sterline non previsti nel marzo scorso. Di questi 58,7 (69,2 miliardi di euro) vanno sotto la voce Brexit. Il rapporto debito-Pil, inoltre, già nel 2018 supererà la soglia del 90 per cento.

Il prezzo del divorzio angloeuropeo è questo, per ora. E va imputato largamente al riveduto e corretto tasso di sviluppo. Londra scopre di crescere nel 2016 più del previsto (2,1% contro il 2% calcolato dall’Office for Budget Responsibility in marzo), ma riconosce di dover cedere ampio terreno agli effetti del divorzio europeo negli anni a venire. Il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond nel suo primo Autumn Statement - Finanziaria d’autunno - ha sgranato un rosario di previsioni al ribasso: nel 2017 il Pil britannico si fermerà a 1,4%, lo 0,8 meno di quanto preventivato e così proseguirà, con numeri variabili, fino al 2020 quando ritroverà il ritmo della progressione immaginata nel marzo scorso, in epoca pre-Brexit, con un più 2% annuo.

Sul campo della battaglia referendaria rimane pertanto la promessa sventolata dai governi conservatori per molti anni: il pareggio di bilancio nel 2020 fortissimamente voluto dall’ex cancelliere George Osborne che lo aveva scolpito in una serie di manovre costate care ai contribuenti del regno. E tanto basta per confermare che il morso dell’addio a Bruxelles comincia dunque a essere avvertito con nettezza, nella consapevolezza che potrebbe andare molto peggio (difficilmente meglio) perché nessuno sa quali saranno le reali conseguenze del voto espresso il 23 giugno scorso, cinque mesi ieri. «Il nostro mandato - ha detto detto il cancelliere - è dare maggiore resistenza al contesto economico post-Ue e al quadro transitorio che verrà. Per questo dobbiamo misurarci con storiche debolezze a cominciare dalla scarsa produttività».

Il mal sottile dell’economia nazionale sul quale Philip Hammond s’è a lungo intrattenuto. «Non solo siamo meno produttivi di Usa e Germania del 30% - ha ribadito il responsabile del Tesoro – ma anche del 20% rispetto alla Francia e dell’8% rispetto all’Italia. Un lavoratore britannico impiega cinque giorni a fare quanto un tedesco realizza in meno di quattro». La risposta secondo il cancelliere passerà attraverso una fondo da 23 miliardi di sterline che finanzierà innovazione e infrastrutture, così come l’assegno pubblico per Ricerca e Sviluppo s’ingrosserà di altri 2 miliardi di pound entro il 2020.

L’urlo uscito dalle urne della Brexit andava oltre i temi strettamente europei essendo stato anche un “no” della base elettorale alle diseguaglianze che affliggono la Gran Bretagna più, crediamo, degli altri Paesi europei. La risposta di Philip Hammond è giunta sotto forma di un colpo di freno all’austerità tanto cara ad Osborne e in una manciata di misure a pioggia a favore dei cosiddetti “jams” coloro che a stento arrivano a fine mese. In primo luogo è stato varato un piano-casa con 1,4 miliardi di sterline per decine di migliaia di nuove abitazioni popolari. Inoltre, il cancelliere ha annunciato l’aumento del salario minimo a 7,5 sterline l’ora dalla soglia di 7,20 pound in vigore oggi.

Sul fronte della tassazione Philip Hammond s’è limitato a mantenere gli impegni presi con gli elettori dal governo di David Cameron. La corporate tax come ripetutamente annunciato calerà dal 20% di oggi al 17%, ma non sembra che possa andare più in giù. A dare la sensazione di una sforbiciata fino al 15% era stata, nei giorni scorsi, Theresa May che aveva garantito agli imprenditori la «più competitiva corporate tax del G20». Londra ha già quel primato, ora minacciato da Donald Trump che punta, esplicitamente, al 15 per cento. S’era pertanto diffusa la sensazione che la Gran Bretagna per difendere il record fosse pronta a tagli ulteriori. Non sarà così, non ora almeno, nonostante la via della concorrenza fiscale si spiani con chiarezza davanti al cancelliere Hammond per bilanciare la minaccia rappresentata dalla Brexit. Se ne è già avuta conferma: la decisione di Nissan di mantenere gli investimenti nel Regno Unito è maturata dopo un incontro top secret a Downing Street. Le promesse di neutralizzare i danni potenziali della Brexit per l’automotive potrebbero passare proprio da un pacchetto mirato di agevolazioni d’imposta.

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