Ancora prima di insediarsi alla Casa Bianca, Donald Trump si è ritrovato con un regalo inaspettato. Arrivato da un’organizzazione di Paesi - l’Opec -a cui (per una buona parte) il neo presidente degli Stati Uniti guarda con diffidenza. L’accordo raggiunto ieri a Vienna, un taglio produttivo di oltre un milione di barili al giorno (mbg), si è subito riflesso sui mercati petroliferi con un balzo delle quotazioni del barile. Un rincaro che, se si manterrà su questi livelli nel medio termine, non può che far bene all’industria americana dello shale oil, e comunque degli idrocarburi in generale.
Anzi si potrebbe affermare che i primi a beneficiare di questa decisione dell’Opec siano proprio la numerose e piccole compagnie specializzate nel fracking, una tecnica non convenzionale di estrazione del petrolio, più inquinante e con costi di produzione più alti. Meglio conosciuta come tight oil o shale oil. Lo shale oil è stata una rivoluzione energetica. I numeri parlano da soli. Dal 2005 al 2007 la produzione Usa stentava a superare 4,5 mbg, mentre le importazioni superavano i 10 mbg. Già nel 2010, grazie all’impetuosa crescita del tight oil, la produzione era risalita a 5,3 mbg. Per poi arrivare nel 2013 a 7,5 mbg. Per la prima volta in oltre 20 anni gli Stati Uniti producevano più di quanto importavano. A fine 2015, nonostante la caduta delle quotazioni, gli Stati Uniti divenivano i primi produttori mondiali con quasi 11 mbg.
Durante la sua infuocata campagna elettorale Trump è più volte ritornato sul tema dell’energia, a lui tanto caro. Il suo ambiziosissimo progetto è rendere gli Stati Uniti energeticamente indipendenti. Trump, tuttavia, non ha mai nascosto la sua diffidenza verso le energie rinnovabili.
Nel suo suo programma si punta a liberare 5mila miliardi di dollari di riserve di shale oil e gas naturale. Ma anche di porre fine alla moratoria sulle trivellazioni sul territorio federale. L’agenda energetica del neo presidente mira anche ad alleggerire le restrizioni all’industria dei combustibili fossili, rimuovendo gli ostacoli che l’hanno recentemente rallentata. Probabilmente anche grazie a un alleggerimento dei vincoli ambientali. Il possibile accantonamento del Clean Power Plan dell’amministrazione Obama, che prevede una riduzione del 32% dell’inquinamento da anidride carbonica legata alla produzione di energia rispetto ai livelli del 2005, andrebbe in questa direzione. Gli incentivi per la diffusione delle rinnovabili rischiano poi di essere ridotti sensibilmente.
Trump vuole gli idrocarburi. E vuole un’espansione dei diritti di perforazione petrolifera. Se i prezzi internazionali del greggio salissero,la sua agenda non potrebbe che giovarne. E se il petrolio si mantenesse sui 55 dollari è prevedibile una decisa crescita produttiva negli Stati Uniti, soprattutto nel regno dello shale oil, vale a dire negli Stati del Nord Dakota e del Texas.
Quando, nel novembre del 2014, Riad impose la sua linea al vertice di Vienna – lasciare inalterata la produzione nonostante l’eccesso di offerta e i prezzi in discesa da mesi – la sua decisione rispondeva ufficialmente alla logica di non perdere quote di mercato. Ma sin dall’inizio aveva ben chiaro in testa che, facendo crollare le quotazioni - nel dicembre successivo a Vienna Riad prevalse ancora con questa linea - l’Arabia puntava ad estromettere dal mercato proprio questo pericoloso concorrente; lo shale oil americano. La sua guerra tuttavia l’ha persa.
In questi ultimi due anni di prezzi bassi, le compagnie di fracking hanno mostrato una resistenza inaspettata. Non poche sono fallite, ma la maggior parte ha fatto di necessità virtù, ottimizzando le tecniche di estrazione e migliorando l’efficienza. Il risultato è che sono riuscite mediamente a ridurre i costi di estrazione del 40 per cento. In alcune aree sono scesi oltre la metà mentre la produttività dei pozzi è cresciuta del 48 per cento. Un processo iniziato nel 2015 e proseguito nel 2016.
Solo per fare un esempio, il break even per produrre shale oil - alla testa di pozzo - nel giacimento di Bakken, uno dei maggiori degli Usa, è sceso da 59,06 dollari per barile a meno di 30. Ora nel giacimento di Bakken un prezzo internazionale di 45 dollari al barile è sufficiente a generare profitti per molte compagnie. E se i Paesi dell’Opec riuscissero a tradurre in realtà il taglio deciso ieri, e a mantenere i prezzi sopra i 50 dollari, le compagnie americane di fracking saranno ancora di più. Con buona pace dei sauditi.
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