Donald Trump mantiene la prima promessa elettorale: in campagna si era impegnato a convincere la Carrier, azienda di condizionatori della United Technology, a non trasferire posti di lavoro in Messico, dove avrebbe pagato i dipendenti 3 dollari l’ora anziché tra i 20 e i 26. Altrimenti avrebbe imposto dazi del 35% sui prodotti. Ieri il presidente eletto ha visitato la fabbrica di Indianapolis che doveva traslocare per celebrare un accordo con l’amministrazione entrante che mantiene i cancelli aperti e salva mille occupati. «Venderanno molti condizionatori» ha twittato Trump. «Non accadrà più che le aziende lascino questo Paese senza conseguenze - ha aggiunto parlando a lavoratori e dirigenti -. E ridurremo le imposte aziendali al 15% dal 35%, un’aliquota terribile per il business».
La visita ha inaugurato un tour di ringraziamento del Paese per il successo alle urne scattato dopo la nomina dei finanzieri Steven Mnuchin e Wilbur Ross a segretario al Tesoro e al Commercio, gli uomini di punta per gestire la sua piattaforma di crescita industriale e di riscrittura dei patti di libero scambio contro la delocalizzazione. Ma la tappa è diventata anche sintomo di quanto le sfide e le polemiche saranno dure una volta entrato alla Casa Bianca. I critici hanno attaccato: «United Technologies ha preso Trump in ostaggio e ha vinto, è un brutto precedente», ha tuonato il democratico Bernie Sanders. L’Indiana è stato finora governato da Mike Pence, oggi vicepresidente, e il prezzo della persuasione sono stati incentivi pubblici, 7 milioni dalle autorità locali. C’è di più: United Technologies è un grande fornitore del Pentagono - un decimo del suo business - ragione sufficiente per un regalo di benvenuto a Trump.
La teatralità del gesto non scioglie i nodi. Carrier procederà comunque a spostare altri 1.300 impieghi oltre confine. E i posti salvati sono lo 0,2% degli impieghi manifatturieri in Indiana, in calo del 20% dal Duemila. Lo stato ha bassa disoccupazione, ma molti neoassunti sono nei servizi a bassi salari: 40mila dollari l’anno in media. Le nomine di Trump per i dicasteri economici - Mnuchin e Ross - fanno pure discutere. Se Ross ha fama di raider della “Rust Belt” per l’abitudine a dolorose ristrutturazioni, è soprattutto Mnuchin, banchiere che ha fatto di rischio e aggressività i suoi assi nella manica, che sulla carta è agli antipodi della retorica di Trump contro Wall Street: durante la crisi ha fatto fortuna - centinaia di milioni, stando al Wall Street Journal - rilevando a prezzi stracciati la fallita IndyMac, secondo crack bancario per dimensioni nella grande recessione, ribattezzandola OneWest e riportandola all’utile grazie alla copertura delle perdite da parte del governo e a pignoramenti di abitazioni.
Rivendette OneWest nel 2014 a Cit Group con un profitto di 3 miliardi, anche se Cit scoprì in seguito problemi contabili per 230 milioni e prestiti in sofferenza per altri 40 milioni alla defunta casa cinematografica Relativity Media. Mnuchin lasciò Cit l’anno scorso con una buonuscita di 10,9 milioni. A suo vantaggio Mnuchin ha tuttavia familiarità, oltre che con la finanza, con gli avversari democratici: il suo hedge fund Dune fu sostenuto da George Soros, finanziatore di Hillary Clinton, e lui ha donato a Obama e Kerry oltre che al repubblicano moderato Romney, in lizza per diventare segretario di Stato. In un’intervista al Journal, Mnuchin ha anche suggerito possibili compromessi sul fisco: ha sottoscritto quale priorità una riforma delle tasse, con generalizzati tagli per aziende e famiglie, ma ha aggiunto che i redditi più alti non godranno di sgravi netti. Le altre iniziative prevedono meno regolamentazione, revisioni di accordi commerciali e investimenti in infrastrutture.
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