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Lagarde, colpevole senza condanna

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Lagarde, colpevole senza condanna

  • –Marco Moussanet

parigi

Christine Lagarde è parzialmente colpevole di «negligenza» nell’affaire Tapie-Lyonnais. Ma non le è stata comminata alcuna pena. E la sentenza non verrà iscritta nel casellario giudiziale, lasciando quindi immacolata la sua fedina penale.

È questa la salomonica decisione della Corte di giustizia della Repubblica (l’istanza ibrida politico-giudiziaria incaricata dei processi ai ministri) annunciata ieri pomeriggio nei confronti dell’ex ministro dell’Economia, che le consentirà di rimanere alla guida del Fondo monetario internazionale (alla cui direzione generale è stata confermata nel luglio scorso): ieri sera il board dell’Fmi ha espresso «piena fiducia» nella Lagarde. Anche il Governo francese, attraverso un comunicato del ministro dell’Economia Michel Sapin, si è affrettato a «confermare la propria fiducia nella capacità della Lagarde a esercitare le sue responsabilità presso il Fondo monetario internazionale, dove sta assolvendo il secondo mandato con successo».

Per capire l’epilogo di ieri dell’affaire, bisogna risalire addirittura al 1992. Quando l’imprenditore e finanziere Bernard Tapie - diventato ministro della Città durante la seconda presidenza Mitterrand e in piena ascesa politica nel feudo di Marsiglia – deve cedere le proprie attività economiche, in primis la società Adidas. Che viene comprata per 320 milioni (di euro equivalenti) da un pool di investitori guidati dalla banca pubblica Crédit Lyonnais. Ma rivenduta un anno dopo al doppio. Tra Tapie, che si ritiene truffato, e la banca inizia un lungo contenzioso giudiziario, con sentenze contrastanti.

Nel 2007, quando arriva al ministero dell’Economia, la Lagarde – forte anche dell’esperienza di avvocato d’affari negli Stati Uniti – decide di avallare l’opzione, già sul tavolo, di affidarsi a un arbitrato privato per chiudere la faccenda (che, secondo la sua testimonianza, costa allo Stato oltre 30 milioni l’anno di spese legali).

La sentenza arbitrale arriva nel luglio del 2008 ed è totalmente favorevole a Tapie. Al quale lo Stato (attraverso il Cdr, la struttura che si occupa della liquidazione del Lyonnais, nel frattempo fallito) deve versare oltre 400 milioni (403, per l’esattezza). Una cifra oggettivamente faraonica, rispetto a quelle circolate negli anni precedenti. Ma a scioccare molti è soprattutto l’entità dei danni morali: 45 milioni esentasse.

Nel 2015 il Tribunale, al termine di un’inchiesta in cui viene accertato che uno dei tre giudici arbitrali era «molto vicino» a Tapie, annulla la sentenza, impone a Tapie di restituire la somma ricevuta e accusa alcuni dei protagonisti (tra cui l’ex capo di gabinetto della Lagarde, l’attuale ceo di Orange Stéphane Richard) di «truffa organizzata ai danni dello Stato». Mentre il filone penale segue il suo corso, l’ex ministro viene rinviata a giudizio, appunto davanti alla Corte di giustizia della Repubblica, per “negligenza”. Con la doppia accusa di aver accettato la soluzione arbitrale e soprattutto di non aver presentato ricorso contro la sentenza (in particolare per i 45 milioni di danni morali), nonostante il parere contrario dell’Ape, l’agenzia di Bercy che si occupa di gestire le partecipazioni azionarie dello Stato.

Dopo una settimana di udienze, la Corte ha quindi deciso – in contrasto con la richiesta di assoluzione da parte del pubblico ministero - che la Lagarde è colpevole per quanto riguarda il mancato ricorso, che «avrebbe senz’altro consentito di scoprire la truffa». Una «negligenza» che ha reso «ineluttabile l’ottenimento da parte di Tapie, in maniera fraudolenta, di un indennizzo esorbitante».

Nel contempo – tenuto conto della «personalità» della Lagarde, della sua «reputazione internazionale» e del fatto che ai tempi della vicenda «doveva fronteggiare una crisi finanziaria internazionale» – ha però deciso un «esonero dalla pena». E cioè della possibile condanna fino al massimo di un anno. Che avrebbe probabilmente costretto la Lagarde – la quale durante la sua audizione ha sostenuto di essere innocente e di aver «sempre agito in nome dell’interesse generale» - a dimettersi dalla direzione del Fondo monetario.

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