Eccola l’inflazione che molti temono di veder riapparire in forze nel corso del 2017. Un aumento per il mese di dicembre lo avevano messo in conto un po’ tutti, se non altro per l’inevitabile effetto base creato dai valori del petrolio. Pochi però si aspettavano che l’indice dei prezzi al consumo tedesco potesse registrare un incremento più che doppio rispetto al mese precedente, passando da 0,7% a 1,7% in un sol colpo. E il fatto che l’impennata si sia appunto registrata in Germania, cioè il Paese storicamente più preoccupato per l’inflazione e anche più critico nei confronti delle politiche ultra-espansive della Banca centrale europea (Bce) è stato sufficiente ieri per innescare una vera e propria svendita sui titoli di Stato.
Ieri il rendimento del Bund è risalito allo 0,26%, ma il movimento sui «periferici» è stato ancora più accentuato tanto che il BTp si è attestato all’1,87% e lo spread Italia-Germania è quindi tornato a 161 punti base. Tutto questo perché, appunto, una lettura più forte del previsto del dato sui prezzi tedeschi porta gli investitori a pensare che il compito di Mario Draghi nel trovare un accordo in seno al consiglio Bce per mantenere le misure di stimolo si farà sempre più difficile nei mesi a venire. E che anzi possano aumentare gli spazi per un ridimensionamento del piano di riacquisti, che per il momento procederà comunque al ritmo di 80 miliardi di euro mensili fino a marzo e poi si ridurrà a 60 miliardi fino al termine dell’anno.
Chi è di questo parere, fra gli analisti, fa notare come le aspettative di inflazione nell’Eurozona a medio/lungo termine si stiano approssimando all’obiettivo stesso dell’Eurotower. Prova ne sia che il tasso atteso fra cinque anni per i successivi cinque, cioè il cosiddetto «5y5y» che è una delle misure preferite dai banchieri centrali, è risalito all’1,76% quando la scorsa estate stava sotto l’1,30%: viaggia ai massimi dal marzo 2015 (quando il «quantitative easing» venne ampliato) e non è poi più così lontano dal 2%, livello al quale la dinamica dei prezzi si dovrebbe avvicinare secondo quanto previsto dallo statuto stesso Bce.
Gli scettici invece non possono che rilevare come questa fiammata sia non solo in gran parte attesa, ma dovuta quasi esclusivamente all’effetto materie prime e petrolio (ai massimi da 18 mesi). Se quindi a livello di Eurozona l’indice generale dei prezzi al consumo di dicembre (i cui dati saranno diffusi oggi) potrebbe secondo gli analisti di Barclays Capital accelerare dallo 0,6% all’1,1 per cento, l’inflazione «core» che rileva la tendenza di fondo perché esclude le componenti più volatili rischia invece di restare ancorata a un poco rassicurante +0,8 per cento.
Certo, la tendenza alla reflazione (cioè un periodo di moderato incremento dei prezzi successivo a una fase di deflazione) è un fenomeno ben presente su scala globale, in primo luogo negli Stati Uniti dove si fa soprattutto affidamento sulle misure fiscali espansive promesse da Donald Trump e dove, non a caso, la Federal Reserve ha già avviato un ciclo rialzista sui tassi mentre i rendimenti dei titoli di Stato decennali si sono portati a ridosso del 2,50 per cento.
L’Europa dei bond si sta muovendo nella stessa direzione, in parte di riflesso al movimento globale e in parte seguendo dati sull’inflazione come quello di ieri, ma i dubbi restano. Per Simon Wells e Fabio Balboni di Hsbc siamo ancora molto lontani dall’assistere a un rialzo dell’inflazione di fondo sostenibile nel tempo: il tasso «core» difficilmente salirà molto oltre l’1% e potrebbe anzi attestarsi appena all’1,2% nel 2018. Prima o poi anche il mercato potrebbe prenderne coscienza.
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