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Un riequilibrio ancora troppo graduale

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IL focus

Un riequilibrio ancora troppo graduale

(Ansa/Ap)
(Ansa/Ap)

L’economia tedesca cresce rapidamente. Più che in altri Paesi europei. La sorpresa è nel fatto che per una volta - ma era già accaduto nel 2013 - le esportazioni nette hanno “rallentato” l’economia. L’anno scorso il Pil tedesco è salito dell’1,9%, ma il commercio con l’estero ha agito da freno: ha ridotto la crescita di 0,1 punti percentuali.

A spingere l’economia sono stati soprattutto i consumi privati, che hanno contribuito per 1,1 punti percentuali all’1,9% complessivo, i consumi pubblici in forte accelerazione (0,8 punti) e gli investimenti, soprattutto in costruzioni (0,5 punti). La spinta della domanda interna ha fatto sì che le importazioni siano salite del 3,4%, più rapidamente delle esportazioni, in aumento del 2,5%. Il surplus della bilancia commerciale resta comunque elevato: 242 miliardi nei confronti di tutto il mondo, il 7,7% del Pil, in calo dall’8,7% del 2015.

Sta dunque accadendo, sia pure lentamente, quanto molti economisti e analisti auspicano da tempo: un riequilibrio dell’economia tedesca, “accusata” negli anni scorsi di applicare una politica quasi mercantilista, che puntava alle esportazioni tenendo a bada la domanda interna. La moderazione salariale, in effetti, è stata uno dei cardini della strategia di Berlino; mentre nel 2009, per contrastare la crisi, la Germania ha adottato una sorta di svalutazione fiscale: sostegno alle aziende esportatrici e aumento dell’Iva (qualcosa di simile a quanto ha poi fatto, con risultati abbastanza positivi, il Portogallo e ha tentato di fare la Francia prima che Hollande smontasse la riforma voluta da Sarkozy).

Qualcosa ora sta cambiando: l’anno scorso le retribuzioni sono salite del 2,3% e il costo unitario del lavoro dell’1,5%, mentre la produttività è aumentata del solo 0,9%. Sarebbe facile ricondurre questa dinamica - non sana, ma sostenibile in un’economia come quella tedesca - all’introduzione del salario minimo nel 2015, ma i dati di Destatis mostrano che questa divaricazione è presente almeno dal 2012. Analogamente, non va troppo enfatizzato l’aumento dei consumi pubblici: per il 2016 Destatis stima un surplus fiscale pari allo 0,6% del Pil, contro un deficit medio di Eurolandia pari al -1,8%, e un debito pubblico in calo al 68,1% dal 71,2%.

Per molti economisti, il rigore fiscale è però il segno che il Governo di Berlino potrebbe fare anche di più. I dati di ieri non placheranno dunque le polemiche contro la Germania e il suo surplus commerciale, almeno di quello verso Eurolandia che - calcolato in base alle indicazioni di Destatis - dovrebbe essere vicino ai 130 miliardi, il 4,1% del Pil. È infatti la moneta comune a esacerbare il problema posto della bilancia corrente tedesca, considerata non a caso uno squilibrio da correggere dalla Commissione Ue: in un regime di cambi flessibili, la moneta tedesca - spinta anche dai flussi finanziari - si apprezzerebbe...

Non è in realtà del tutto chiaro come l’intervento del Governo possa incidere sul surplus corrente, che per l’Fmi non è legato a distorsioni politiche ed è comunque dovuto, per la metà almeno, a fattori fondamentali, non modificabili. La Commissione Ue ha tuttavia stime diverse (solo l’1% sarebbe strutturale) e quindi continuerà a insistere perché la Germania spinga le importazioni attraverso salari e spese pubbliche.

Non va dimenticato, in ogni caso, che in un mondo così integrato il nazionalismo economico ha - malgrado i desideri della politica - sempre meno senso. Il 25% del valore aggiunto delle esportazioni tedesche - gli ultimi dati Ocse sono però del 2011 - viene generato all’estero (il 7,7% in Eurolandia, il 12% nella Ue). La Germania coinvolge, nella catena del valore, molti Paesi: gli Stati Uniti innanzitutto, seguiti da Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia (per l’1,4%) e Cina. Senza contare che, per esempio, il 3,4% del valore aggiunto delle esportazioni italiane è generato in Germania, che è il nostro primo partner in questa statistica.

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