Se c’è un prodotto che incarna il modello tedesco di Industria 4.0 è la Mercedes Classe E. Sigla interna: “serie 213”. Daimler la produce nella sua Tech Fabrik in una linea di assemblaggio con 87 sistemi di produzione, 252 controllori al logica programmabile, 2.400 robot, 42 tecnologie diverse. Un ecosistema connesso e dialogante grazie a una rete di 50mila indirizzi Ip. La Classe E è il primo modello “nativo digitale” prodotto e commercializzato dalla casa della stella a tre punte. Non si vede, ma a bordo di ogni esemplare di Classe E ci sono oltre 800 componenti progettati e forniti - direttamente o tramite sub fornitori come Bosch – dall’italiana StMicroelectronics, società di Agrate (Monza-Brianza) nota nel mondo per aver inventato i sensori Mems – gli accelerometri che, per esempio, fanno ruotare gli schermi dei nostri smartphone “sentendo” ogni minimo movimento – e che oggi è un gigante dell’elettronica con 43mila dipendenti, sedi in tutto il mondo e un fatturato di 7 miliardi di euro, il 20% prodotto nei mercati italiano e tedesco.
Italia e Germania. Mercedes e StM. «La Classe E è un esempio di prodotti “Designed in Italy” che finiscono nelle eccellenze dell’industria 4.0 tedesca, facendo la differenza», spiega con orgoglio Carlo Bozotti, presidente e Ceo di StM, che aggiunge: «In Italia progettiamo e costruiamo i mattoni dell’industria 4.0». Non è un caso che quest’anno StM metterà il produzione un chip di controllo pensato per l’auto autonoma di 4° livello – quello che precede l’ultimo livello dell’auto che guida da sola – che sarà testato su vetture Bmw.
Bozotti ha portato la testimonianza delle imprese, insieme ad altri colleghi italiani e tedeschi, alla prima Conferenza economica italo-tedesca che si è svolta ieri a Berlino (si vedano gli altri articoli in pagina). Un esempio di cooperazione sul campo tra due potenze industriali «divise solo dalle Alpi», come ha dichiarato poco dopo l’imprenditrice Tanja Rueckert, vice presidente esecutivo di Sap, destando un certo brusio in sala: la Ruecket è intervenuta nel panel sul futuro dell’industria nell’economia digitale al fianco del ministro dello Sviluppo economico italiano Carlo Calenda, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e i loro omologhi tedeschi.
Battute a parte, ieri Italia e Germania sono apparse meno distanti. Se infatti le testimonianze tedesche hanno confermato che Berlino sa bene che cosa si nasconda dietro l’espressione “Industria 4.0”, quelle italiane hanno dimostrato che anche il nostro Paese ha finalmente una strategia. Il Piano “Industria 4.0” da 20 miliardi varato dal Governo è il punto di arrivo di un lavoro attento. «È un piano non dirigista: gli incentivi sono automatici», spiega Calenda. Automatici perché si tratta di incentivi fiscali, collegati agli investimenti delle aziende. Non dirigista perché non indica su quali settori industriali investire, ma premia gli investimenti in tecnologie in modo trasversale. Nove tecnologie, tra cui cyber sicurezza, big data, cloud computing, automazione.
Ma il piano fa di più. «Tra i requisiti degli investimenti finanziabili – spiega Josef Nierling, ad di Porsche Consulting, società che ha contribuito ai lavori preparatori della commissione Epifani su “Industria 4.0”, che poi ha dato le linee guida al piano Calenda – c’è un aspetto che farà sicuramente la differenza: gli investimenti devono riguardare soluzioni e tecnologie connesse. Perché solo così si trasforma digitalmente tutta la catena del valore». E solo così potranno nascere anche in Italia sempre più aziende capaci non solo di produrre i “mattoni” dell’industria 4.0 ma anche, finalmente, di metterli insieme.
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