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Il grande timore del neoprotezionismo

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Il grande timore del neoprotezionismo

Bank of America mette in guardia da un’equazione rischiosa: se progetti su tasse e infrastrutture potrebbero aiutare l’espansione quest’anno e il prossimo, la spinta potrebbe svanire di fronte anche solo a piccoli dazi contro Messico e Cina (AFP Photo)
Bank of America mette in guardia da un’equazione rischiosa: se progetti su tasse e infrastrutture potrebbero aiutare l’espansione quest’anno e il prossimo, la spinta potrebbe svanire di fronte anche solo a piccoli dazi contro Messico e Cina (AFP Photo)

«Nazionalista, populista, patriottico» ha assicurato raggiante Steve Bannon, vate della nuova destra radicale americana e oggi grande stratega di Donald Trump, parlando del messaggio inaugurale del neopresidente che ha contribuito a comporre. Precursore d’una nuova stagione di chiusura e protezionismo, quando si tratta di economia e commercio, temono i suoi critici.
Quanto delle sue promesse e minacce Trump manterrà sull’economia - dalla crescita che vola al 4% a tasse falciate, da esodi forzati di clandestini a spese infrastrutturali che creano milioni di impieghi - rimane un interrogativo in attesa di risposta. Ma la crociata contro il libero scambio è tra i suoi impegni più espliciti e adesso che è alla Casa Bianca tiene sulle spine analisti e politici, investitori e imprenditori. Fa serpeggiare preoccupazioni, se non per guerre economiche, per spirali di tensioni che mettano alla prova stabilità e crescita su un teatro globale già fragile.

Wall Street - che con i suoi rally finora aveva liquidato le ombre come retorica concentrandosi sulla speranza di deregulation e sgravi di imposte - ora pare ricredersi: ha archiviato una settimana in ribasso, gravata dalle cupe immagini evocate da Trump di una «carneficina dell’America» da fermare. Il clima di ottimismo nelle sedi delle banche - un punto di vista limitato ma influente - non è evaporato. Il sondaggio Investors’ Watch di Ubs mostra che è tuttora in rialzo di 20 punti percentuali dalle elezioni. E che il 68% pronostica significativi rendimenti azionari contro il 25% pre-elettorale. Ma Bank of America mette in guardia da un’equazione rischiosa: se progetti su tasse e infrastrutture potrebbero aiutare l’espansione quest’anno e il prossimo, la spinta potrebbe svanire di fronte anche solo a piccoli dazi contro Messico e Cina. William Buiter di Citigroup immagina di peggio: la risposta a un’ondata protezionista sarebbe «facilmente una recessione globale».

Mickey Levy di Berenberg sottolinea «la migliorata fiducia» per l’attesa di svolte fiscali, aggiungendo però che «se le riforme deluderanno ed emergeranno altre paure, per esempio radicali politiche protezionistiche, invertirà la rotta». Martin Faulkner-Landau di Deutsche Bank è ancora convinto che la nuova amministrazione a conti fatti possa spingere l’economia a marciare del 3,6% nel 2018 e che il grido di battaglia “America First” si addolcirà in una ragionevole preferenza per «accordi bilaterali anziché multilaterali». Che, cioè, il nuovo “ordine” sia stabile con la nozione che «buone recinzioni garantiscono buon vicinato». Purché, continua Landau, le staccionate non siano mura che «danneggerebbero il commercio globale».

Ancora: Kevin Logan di Hsbc si è trincerato dietro la prudenza: «Tempi e dimensioni delle proposte di Trump potrebbero influenzare l’outlook» che ha mantenuto modesto. Alcuni suoi colleghi di lavoro ventilano tuttavia il rischio di «guerre commerciali e delle valute». E Michael Gapen, di Barclays, calcola che dazi del 15% sulla Cina e del 7% sul Messico - modesti rispetto alla media attuale di 2-10% a seconda dei beni - cancellerebbero mezzo punto percentuale dal Pil Usa in un solo anno. Un allarme più istituzionale? Il Fondo monetario ha delineato scenari che limano la crescita dello 0,2% in caso di tariffe bilaterali, con cadute del 2% di import e export. Mentre una escalation di barriere globali - i semi già esistono, con una media di 22 misure al mese stando alla Wto - in grado di generare incrementi del 10% nei prezzi all’import in tre anni taglierebbe in un quinquennio del 2% la crescita globale, farebbe crollare investimenti e scambi.

Gli atteggiamenti di Trump per ora non rassicurano. Se ministri quali Wilbur Ross al Commercio, Rex Tillerson agli Esteri o Steven Mnuchin al Tesoro non difettano di pragmatismo, al neonato National Trade Council ha installato Peter Navarro, noto per il suo libro “Morte per mano della Cina”. Tra le idee circolate nel suo entourage ci sono tariffe d’emergenza del 5% su tutto l’import, possibili forse con ordine esecutivo (una procedura che ha subito mostrato di voler usare senza remore anche in situazioni complesse quali Obamacare). Affiorano dazi del 45% sul “made in China”e del 35% sul “made in Mexico”.

Citigroup avverte anche di implicazioni più vaste da ventate protezioniste: «Gli Usa sono stati il campione del free trade e di frontiere aperte per decenni. Una loro ritirata probabilmente indurrebbe altri Paesi ad azioni reciproche e potrebbe rivelarsi un altro chiodo nella bara dell’ordine economico liberale che ha sostenuto la prosperità dal 1948». Le lacerazioni lasciate dal libero commercio sono a loro volta oggi nelle cifre: perdita di occupazione manifatturiera e della middle class, in contee diventati simboli post-industriali quali Luzerne in Pennsilvanya che a novembre ha votato in massa per Trump. L’89% degli americani considera la fuga di impieghi verso la Cina un problema serio e solo il 46% ritiene utile il vicino Nafta che Trump intende rinegoziare. Ma i traumi sono l’esito di molteplici tendenze, globalizzazione e rivoluzioni tecnologiche, difficilmente cancellabili. E la risposta, secondo molti, dipende più da nuove guerre alla povertà - politiche e investimenti sociali, riqualificazione e istruzione, riduzione delle sperequazioni - che non da guerre commerciali, patriottiche o meno.

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