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Trump-Le Pen-Atene, «triplice» sfida ai bond

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Trump-Le Pen-Atene, «triplice» sfida ai bond

Gli spread sul Bund, dopo la fiammata in avvio della settimana scorsa, un po’ sono rientrati. Non solo: l’ipotesi dell’euro a due velocità è, almeno per adesso, messa in disparte. Infine: i tassi nell’asta dei BoT sono rimasti sui minimi.Tutto rose fiori, quindi, per il mondo obbligazionario? Evidentemente no. Le tensioni sul mercato dei bond restano. In particolare in Europa.

Il trend dei capitali

La riprova la fornisce l’andamento dei flussi di capitale sui fondi obbligazionari globali monitorato da Fbr Global. La società di ricerca rileva che, da inizio anno ad oggi, la dinamica netta verso l’obbligazionario europeo (sia corporate che governativo) si è fermata a 1, 38 miliardi di dollari. Un valore inferiore, da un lato, a quello riconducibile ai Paesi emergenti (7,068 miliardi); e, dall’altro, lontano «anni luce» rispetto a flussi netti sugli Usa che hanno superato i 35,5 miliardi di dollari. Insomma: l’attuale distacco degli investitori rispetto ai bond «made in Europe» è nei numeri. Al che viene da domandare: quali le motivazioni di questa situazione? La risposta è articolata.

Il Pil del Vecchio Continente

In primis va ricordato la dinamica di fondo: il rialzo dei tassi legato al miglioramento della congiuntura e, quindi, dell’inflazione. I prezzi al consumo nell’Eurozona, seppure a macchia di leopardo, sono saliti. In gennaio la media si è attestata all’1,8%, in netto rialzo rispetto all’1,1% di dicembre e al di sopra del consensus che stimava l’1,6%. A fronte di un simile contesto gli operatori hanno venduto, ad esempio, i titoli di Stato. Una componente del loro rendimento, infatti, è rappresentata proprio dall’inflazione. Se questa sale è ovvio che si riducano i bond in portafoglio in attesa delle nuove emissioni che dovrebbero garantire uno yield maggiore.

La politica monetaria

Ma non è solamente questione di fondamentali macroeconomici. Altre carte sono sul tavolo dei titoli obbligazionari. Tra queste il futuro del Qe della Bce. In Aprile, è noto, la Banca centrale europea ridurrà gli acquisti mensili di asset da 80 a 60 miliardi di euro. Al di là però di questo passaggio, già scontato dal mercato, è l’intero meccanismo del Quantitative easing ad essere in discussione. L’azionista di maggioranza dell’Eurozona, la Germania, forte dello rialzo dell’inflazione vuole un cambiamento di rotta. Il che porterebbe non solo l’ulteriore salita dei tassi. Ma, soprattutto, maggiore instabilità. In particolare per i Paesi dell’Euro-periferia. Mario Draghi ne è consapevole e punta a mantenere la barra dritta. Anche perchè, analizzando l’inflazione prevista tra 5 anni sul quinquennio successivo (un indicatore molto seguito dalla Bce) l’aumento stesso dei prezzi al consumo non è così consolidato. Quindi, è il ragionamento dell’Eurogovernatore, non è il momento di parlare di mutamenti drastici nella politica monetaria.

La variabile Ue del voto

Ciò detto, sul tavolo obbligazionario, c’è un’altra importante carta. Quella che, a torto o a ragione, maggiormente preoccupa i mercati: l’instabilità politica legata alle molte prossime elezioni in Europa. Siano esse già in calendario oppure solo probabili (come in Italia).

Ebbene su questo fronte il focus degli esperti è sulla seconda economia dell’Unione: la Francia. Proprio ad inizio della scorsa settimana, anche e soprattutto in scia alla notizia che i sondaggi stimano il Front National in testa al primo turno delle presidenziali, gli spread sono balzati all’insù. E l’onda lunga della tensione è comunque rimasta. La differenza di rendimento tra il decennale di Parigi e quello di Berlino è passata da 66,7 punti base (venerdì 3 febbraio) alla quota di 74,4 della settimana dopo. Certo: il rendimento del governativo francese non è aumentato. E, però, è tornato a scendere quello tedesco: dallo 0,4% è passato allo 0,3%. Il segno, inequivocabile, del continuo «fly to quality» messo in atto dal mercato. Il motivo? La paura generalizzata che l’eventuale avanzata delle forze anti-euro possa dare la picconata definitiva ad Eurolandia. In tal senso non è un caso che, lo scorso lunedì, il tasso del BTp decennale (come quello del Bonos spagnolo) sia balzato all’insù. È vero: la notizia dell’avanzata del Front National riguarda la Francia e l’eventuale «Frexit». E, tuttavia, l’effetto domino si è immediatamente esteso al Belpaese. Il quale, oltre a dovere gestire un debito intorno al 130% del Pil, ha due nuovi rischi: la possibile procedura d’infrazione da parte dell’Ue sui conti pubblici e le elezioni anticipate. Oltre a ciò si aggiunge un’altra variabile: il perenne riaffiorare del fiume carsico del caso-Grecia. Venerdì pareva che le trattative per sbloccare i prestiti fossero ben avviate. Ieri, però, la situazione è tornata complessa. In un simile contesto ben si capisce il perchè del nervosismo sui titoli di Stato di Eurolandia (eccezion fatta per il Bund).

Il Treasury e Trump

Fin qui alcune indicazioni sul Vecchio continente. Tuttavia, sull’altra sponda dell’ Atlantico le novità non mancano. Il presidente Usa Donald Trump, sfruttando essenzialmente la retorica, ha parecchio influenzato i mercati. Dal giorno della sua elezione il tasso del Treasury decennale è passato da circa l’1,8% al massimo del 2,6% (15/12/2016). I motivi? Semplici: in primis l’attesa per l’accelerazione dell’economia promessa dallo stesso Trump. Poi: la scommessa che, nonostante la volontà della Casa Bianca di indebolire il dollaro, la Fed ritoccherà ancora all’insù il costo del denaro. «Un’impostazione - spiega Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Services- “certificata” dal rapporto tra le posizioni speculative al rialzo e al ribasso legate al future sul Treasury». Ebbene: attualmente il saldo è «fortemente negativo. Il che vuole dire, al di là dei movimenti tecnici, che gli operatori si attendono l’ulteriore stretta».

Già, l’ulteriore stretta. L’eventuale mossa, a ben vedere, impatterebbe soprattutto sugli investitori domestici. Secondo i più recenti dati, infatti, la quota di Treasury in mano agli stranieri è scesa nel novembre scorso sotto il 30% (la prima volta dal 2009). La dinamica, a detta degli esperti, deriva da un cocktail di fattori. Il primo è la ritirata, a causa dei bassi tassi, dei fondi pensione. Poi, di quelli sovrani. Infine delle strategie delle banche centrali. Così il pensiero corre alla People Bank of China (Pboc). Questa, nell’intento di contrastare il rialzo dello yuan verso il dollaro, ha dismesso parte delle sue riserve in dollari. Vale a dire: ha venduto Treasury. Con il che viene, però, da domandarsi: com è possibile, allora, il flusso di capitali verso gli Usa indicato da Epfr Global? La risposta è duplice: dapprima l’appetito degli operatori si è focalizzato sui bond emessi dalle aziende. E, poi, i dati sugli investitori stranieri risalgono a novembre. In realtà, come mostra il calo del tasso del Treasury da metà gennaio in poi, l’appeal del bond americano è risalito.

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