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È la Corea del Nord il primo test internazionale per Trump

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i missili di pyongyang

È la Corea del Nord il primo test internazionale per Trump

(Reuters)
(Reuters)

Non è ancora una vera crisi internazionale, ma può esserne il preannuncio. Il missile lanciato domenica dalla Corea del Nord non è il temutissimo Icbm che Pyongyang aveva dichiarato con la solita baldanza di essere in grado di testare «in ogni momento e ovunque» e che potrebbe raggiungere il territorio continentale americano. Ma il successo del test del nuovo Pukguksong-2 rappresenta certamente un ulteriore progresso nel programma balistico-nucleare del regime: si tratterebbe di una versione modificata in meglio - con propellente solido - dei missili intermedi di tipo Musudan di cui solo uno, l'anno scorso, era stato testato con successo.

Il leader Kim Jong-un ha fatto sentire la sua voce proprio un’ora prima della cena finale in Florida tra Donald Trump e il premier giapponese Shinzo Abe. Il presidente americano, nell’intervento dopocena davanti alle telecamere con Abe, è stato insolitamente calmo e telegrafico, limitandosi a sottolineare in sole 23 parole che gli Stati Uniti sono «al 100%» al fianco del Giappone, grande alleato. A parte la gaffe diplomatica di non aver citato la Corea del Sud (ma non ha nemmeno citato direttamente la Corea del Nord), il neopresidente ha dato una buona dimostrazione di saper contenere la propria impulsività sullo spinoso problema, a differenza dei toni utilizzati in campagna elettorale o su twitter. Ma già vari membri del Congresso chiedono una linea più dura che segni un cambio di passo dalla «pazienza strategica» di Obama alla promessa «pace attraverso la forza».

È probabile che nell’immediato si ripeta il copione di una nuova condanna internazionale che non porterà a sviluppi decisivi per l’opposizione della Cina a mettere davvero alle corde il regime nordcoreano (il che non corrisponde ai suoi interessi). Il primo delicato test di politica internazionale dell’amministrazione Trump, dunque, riguarderà, insieme, i rapporti con Pyongyang e con Pechino. Se, ad esempio, Washington volesse attuare un drastico giro di vite sanzionatorio sulle aziende cinesi che intrattengono relazioni con la Corea del Nord o dichiarasse di voler accelerare il dispiegamento nella penisola dell’avanzatissimo sistema antimissilistico THAAD (considerato dai cinesi una minaccia per la loro sicurezza), è chiaro che l’era Trump inizierebbe con un peggioramento delle relazioni tra le due potenze mondiali.

Telefonando al presidente Xi Jinping poco prima di incontrare Abe – e chiarendo che la politica Usa continua ad attenersi al principio di “una sola Cina”, che lui stesso aveva messo in dubbio su twitter -, Trump ha comunque sterzato rispetto ai toni anticinesi che avevano cominciato a preoccupare i mercati. E il sollievo era stato generale. D’altra parte, la dimostrazione di grande solidarietà e riguardi verso l’alleato Giappone ha smaterializzato l’incubo di Tokyo di un possibile anche se improbabile “grand bargain” tra Usa e Cina. Può anche darsi che la reazione ipercontrollata di Trump stia a indicare il fatto che una (nuova) strategia americana non esista ancora; o che persino lo stesso Abe possa avergli suggerito di lasciar parlare lui di «assoluta intollerabilità» e di riflettere a freddo sul da farsi. Ma le opzioni per contenere la minaccia nordcoreana appaiono, come sempre, molto limitate.

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