Gli Stati Uniti d’America hanno annunciato una nuova era di protezionismo, gli esperti stanno calcolando gli effetti che avrà sulla crescita del Pil mondiale e le aziende che esportano sono preoccupate dei contraccolpi sul loro fatturato. Ma se l’America non fosse così libera come si pensa? Se gli ostacoli al libero scambio caratterizzassero già da tempo la politica commerciale di Washington? Allora la paura del protezionismo ne uscirebbe ridimensionata, e per un fatto molto semplice: sono anni che le imprese italiane affrontano gli ostacoli americani al commercio, eppure sono anni che l’export dell’Italia verso gli Stati Uniti non fa altro che aumentare.
Insomma, Donald Trump ci deve fare davvero paura?
Le barriere al libero scambio non sono fatte solo di dazi che rincarano il prezzo delle merci. Sono fatte anche di ostacoli più burocratici: regolamenti tecnici, procedure di conformità da espletare, requisiti fitosanitari, ambientali, salutistici da raggiungere. Per un determinato additivo alimentare, ad esempio, uno Stato può imporre soglie diverse rispetto a un altro, ma può anche imporre certificazioni diverse da applicare anche quando quelle soglie sono uguali. Tutti questi ostacoli vanno sotto il nome di “barriere non-tariffarie” al commercio, ma per le imprese possono trasformarsi in balzelli economicamente onerosi tanto quanto un dazio.
Quanto incidono questi ostacoli sulle transazioni commerciali delle imprese europee che esportano negli Stati Uniti? Incidono per il 44%, cioè pesano più o meno su un’operazione ogni due. Non solo, ma per una volta Usa e Cina praticamente si equivalgono: nel caso di Pechino, le misure anti tariffarie incidono infatti per il 48%. I veri liberoscambisti, insomma, sono altri: il Giappone, per esempio, dove le transazioni delle imprese europee che inciampano negli ostacoli burocratici sono solo il 26%; il Canada, dove sono il 30%; l’Australia, con il 30%; o Singapore con il 27%, tanto per citare alcuni Paesi di un certo peso. Dall’altra parte, gli Stati Uniti si rivelano alla pari con Paesi non solo come la Cina, ma anche come la Tunisia, l’Ecuador, il Messico.
I dati sulle misure non tariffarie sono contenuti in un corposo studio condotto in tandem dalla Commissione europea e dal’International Trade Centre, l’agenzia delle Nazioni Unite che supporta le Pmi di tutto il mondo nei loro percorsi di internazionalizzazione. Sotto la lente sono finite le imprese - soprattutto quelle medie e piccole - dei 28 Paesi che compongono l’Unione europea e che nel 2015 e nel 2016 hanno esportato al di fuori della Ue. La media delle aziende che è incappata in almeno un ostacolo tariffario è del 36%: il campione di chi esporta verso gli Stati Uniti alza decisamente la media.
Il trend protezionista segnalato dal report Commissione Ue-Itc fa il paio con i dati forniti la settimana scorsa dal Global Trade Alert (si veda «Il Sole 24 Ore» del 7 febbraio): negli ultimi otto anni gli Usa sono stati il Paese al mondo ad aver elevato il numero più alto di barriere commerciali. Tra dazi, misure antidumping, vincoli di produzione in loco e simili, dal 2008 ai primi mesi del 2016 Washington ha alzato ben 1.084 muri contro il libero commercio. Una distanza siderale dall’India, che pure si è guadagnata il secondo posto nella classifica ma che con le barriere si è fermata a 588. E la Cina, tanto accusata da Trump? In otto anni si è limitata a 200 misure.
L’era di Trump è sicuramente un boccone indigesto sulla tavola della globalizzazione. Ma l’America non si scopre protezionista con lui. E va detto, l’incognita del cambio euro-dollaro rimane ancora lì a funestare il sonno dei nostri esportatori. Quale è allora la buona notizia per le nostre imprese? Che forse il destino della nostra bilancia commerciale con gli Stati Uniti non dipende esclusivamente dagli umori di Trump.
L’anno scorso, quando alla Casa Bianca c’era Obama, abbiamo visto che le barriere tariffarie incidevano negativamente sul 44% delle nostre commesse, eppure l’export italiano verso gli Stati Uniti metteva a segno una crescita del 10,5%. Quest’anno, che è l’anno di Trump, con la crescita dell’export mondiale prevista solo tra l’1,8 e il 3,1% (fonte Wto), si dice che le nostre esportazioni verso gli Usa aumenteranno comunque del 7,8%. Forse il made in Italy conserva ancora buone carte da giocare.
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