Uscire dall’euro? Davvero? Sono in tanti ormai a chiederlo soprattutto in Italia, dove il tema - assente in campagna elettorale - è improvvisamente tornato alla ribalta. La doppia recessione di Eurolandia, nel 2008-09 e nel 2012-13, ha spinto molti alla ricerca di un colpevole e la moneta comune è un capro espiatorio perfetto: l'interdipendenza che ha creato tra i 19 paesi rende evidenti le frizioni e i vincoli, soprattutto politici, mentre nasconde a uno sguardo superficiale i vantaggi, principalmente economici.
Nel profondo la realtà è decisamente diversa. I vincoli e i problemi posti dall’euro sono minimi rispetto ai vantaggi goduti dal nostro paese, i cui problemi nascono altrove. Ecco cinque luoghi comuni da sfatare sulla moneta unica.
1) Il commercio estero ha sofferto
In parte è vero, ma ha recuperato bene. L’andamento dell’euro, oggi, risponde a fattori che riguardano l’unione dei 19 paesi, tra i quali una politica monetaria
unica che tiene conto dell’insieme dell’Eurozona e non di un singolo paese.
Non si può negare che la bilancia commerciale italiana abbia un po’ sofferto. In termini reali - il grafico somma per ogni data il saldo dei quattro trimestri precedenti - l’Italia è andata in deficit durante tutto il primo periodo dell’euro - quando il cambio effettivo era piuttosto elevato per i forti flussi finanziari in arrivo in un’Eurolandia “di successo” - e ancora di più durante la grande recessione, ma dopo la crisi è tornata rapidamente in surplus:l’avanzo, in termini reali, ha anzi recuperato i livelli degli anni 90, quelli rimpianti dai “nostalgici” del cambio flessibile. Proprio nel momento delle maggiori difficoltà di Eurolandia, e del Paese, l’Italia è dunque tornata a essere - da metà 2012 - un esportatore netto.
Le esportazioni, sempre in termini reali, sono cresciute a ritmi costanti sia prima che dopo la crisi. E anche l’export verso la Germania ha mantenuto – in questo caso in termini nominali - un trend in crescita (malgrado la parentesi della Grande recessione) non rapidissima ma comunque sostenuta: la media storica (in termini geometrici e senza escludere la crisi) è del 3,5% annuo, l’export è cresciuto di 1,3 miliardi di euro ogni anno. È diventato inoltre sempre più importante il resto del mondo (l’”estero” di Eurolandia), che ora copre il 61,8% delle nostre esportazioni, dal 50% del ’99. Il cambio dell’euro è quindi diventato molto più rilevante, per l’economia italiana, negli ultimi 18 anni.
All’interno dell'Unione, la Germania, che sembra diventata la nostra bestia nera soprattutto sul tema dell’interscambio commerciale, è intanto diventata sempre meno fondamentale per i nostri destini: assorbe il 12,5% del nostro export (in crescita), contro il 20% del ’91 e il 17% del ’99.
2) Non si può svalutare
È vero, ma è un bene. Il desiderio di svalutazione è piuttosto bizzarro tra i populisti. Soprattutto in un paese come l'Italia, che importa carburanti,
la flessione della valuta comporta sempre una riduzione dei salari reali: benzina e gasolio salgono, si riduce quindi il reddito
disponibile per altri acquisti.
Senza contare che tutta la struttura dei prezzi può aumentare in seguito all'aumento del greggio, con stipendi e salari costretti a inseguirli, a volte senza riuscirci. Se poi è vero che una svalutazione può premiare le imprese esportatrici – imprenditori, ma anche lavoratori – è innegabile che l'effetto sia sempre meno importante per le economie avanzate, che devono competere sulla qualità e la produttività, non sul prezzo. Il Giappone ha recentemente provato a svalutare la propria moneta per risollevare le esportazioni, ma dopo un inizio brillante presto l’effetto è svanito.
3) L’Italia non stampa moneta
È vero, la politica monetaria è decisa a Francoforte dalla Bce per tutti i paesi di Eurolandia. L’Italia ne ha però tratto vantaggi di cui, restando “sovrana” non avrebbe potuto godere. I tassi di interesse sono calati rapidamente per tutte le scadenze. Nel ’93 il tasso ufficiale di sconto della Banca d’Italia era ancora al di sopra del 10%, poi è rapidamente sceso fino al 3% di inizio ’99, in vista dell’adesione all’euro. In termini reali è passato dal 6% - un livello altissimo, che segnalava quanti rischi erano attribuito al nostro debito pubblico
- fino all’un per cento.
Per il lungo periodo, la media dei rendimenti dei decennali nell'età dell’euro è stata del 4,2%, quella del periodo 1980-92 – prima che iniziasse la flessione di “avvicinamento alla moneta unica” del 14,5%. Lo spread sui decennali tedeschi è arrivato da un massimo di 1175 punti base nell’82 fin quasi a zero dopo l’introduzione della moneta comune: i titoli italiani rendevano poco più di quelli emessi dalla Germania. Oggi il quantitative easing della Bce permette ai titoli italiani di avere di nuovo rendimenti molto bassi e spread decisamente inferiori a quelli del periodo della crisi fiscale di Eurolandia. Sono state, per il nostro paese, due grandi occasioni perdute.
L’unico svantaggio che questa politica monetaria potrebbe aver portato all’Italia non piace – e non trova d’accordo – i populisti anti-euro. È possibile che il costo del credito “più basso del dovuto” abbia permesso la sopravvivenza di imprese non competitive che altrimenti sarebbero fallite (cessando di produrre in modo efficiente) o meglio avrebbero trovato in tassi più alti un forte incentivo a innovare. Lo stesso effetto che avrebbe, in tutte le economie, l’introduzione dei dazi sulle importazioni - anch’essi oggetto di crescenti nostalgie - giustificabili solo, e forse, per le industrie nascenti.
4) L'euro ha portato inflazione
È semplicemente falso. La media storica dell'inflazione italiana è del 5,5%, la media del periodo dell’euro (dal ’99) è dell’1,7%. Tra l’85, quando finì l’epoca dell’inflazione a due cifre, e il ’98, i prezzi sono invece cresciuti in media del 5% annuo.
L'ingresso in Eurolandia ha ridotto la dinamica del costo della vita che, va sempre ricordato, è davvero la peggiore delle tasse (anche perché colpisce i più poveri).
Molti consumatori – non solo in Italia – si sono lamentati del fatto che con l'introduzione dell’euro molti prezzi sono aumentati a dismisura (e questo è vero), e hanno accusato le statistiche di non aver registrato questi movimenti (e questo, invece, è falso).
Dai dati Istat emerge che a dicembre 2001, rispetto a un anno prima, molti prezzi risultavano in fortissimo aumento. Non tanto i ristoranti (+3,8%) e gli alberghi (+5,8%), da sempre sul banco degli accusati; quanto i servizi bancari delle poste (+25,8%), le patate (+19%), le polizze assicurative (+16%), la carne di maiale (+12,5%), i giornali (+11,5%), i servizi bancari in genere (+10%), la frutta (+7,6%), i vegetali (+7,3), i frutti di mare (+7%) e così via. Sono relativamente pochi i prodotti che hanno visto i prezzi salire meno del 2,4% dell’indice complessivo.
Come si spiega questa differenza? In quell’anno sono calati i prezzi dell'energia (-5%) e tra questi in particolare i carburanti
(-10,3%): sono prodotti che pesano molto sul paniere e sui consumi degli italiani. In flessione risultavano anche comunicazioni,
prodotti tecnologici e prodotti farmaceutici, non certo secondari nel paniere dei consumi degli italiani.
In molti casi, la dinamica dei prezzi ha rallentato, e bruscamente, già nel 2002. Si può dire che il fenomeno si è esaurito subito, ma intanto il danno era fatto. Nel 2001, a rigore, sono cambiati molti prezzi relativi – quelli, per esempio, dei giornali rispetto a quelli dei farmaci – e i consumatori hanno dovuto sopportare un disagio aggiuntivo a quello dell'uso di una nuova unità di conto, che da allora ha lo stigma della moneta inflazionistica. Senza esserlo.
Il grafico di lungo periodo dell’inflazione permette anche di mettere in dubbio anche una delle soluzioni prospettate da alcuni tra gli euroscettici: la monetizzazione del debito. Risale al febbraio del 1981 il “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Tesoro: l’autorità monetaria non sottoscriveva più, automaticamente, la quota di debito non venduto in asta. È stato da allora che l’inflazione - elevatissima e tenace fin dal ’73, dopo la crisi del petrolio - ha cominciato a scendere. È esattamente quello che prevede la teoria economica: un grafico non dimostra niente - mai - ma suggerisce che il sospetto di un legame tra monetizzazione e accelerazione de i prezzi non può essere facilmente scartato come irragionevole.
5) Il trattato di Maastricht è troppo rigido
Il trattato di Maastricht funzionerebbe perfettamente se in ciascun paese la crescita fosse uguale al 2-2,5% e la sua inflazione
al 2,5%: permetterebbe di avere deficit pari al 3% del pil ogni anno - il massimo consentito - e di portare il debito al 60%
del pil in un tempo lungo ma non irragionevole.
Il problema è che l’Italia non cresce così velocemente, e non è a causa dei vincoli del trattato. Negli ultimi anni gli sforzi di finanza pubblica profusi non si sono trasformati in incrementi analoghi del pil nominale (che comprende anche l'inflazione), ed è difficile individuare - a un primo sguardo - qualunque legame tra la variazione del disavanzo o del totale delle spese pubbliche e il prodotto interno lordo. Il paese in realtà ha fatto passi indietro in termini di produttività multifattoriale, non ha saputo reggere alle sfide della globalizzazione e della tecnologia, non sono state adeguate competenze, modelli organizzativi, strutture normative.
Uscire dall’euro?
Uscire dall’euro, quindi, non è soltanto tecnicamente complicato. È anche costoso, soprattutto per un’economia indebolita
come quella italiana. Tra i costi, a parte quelli evidenti – riguardanti il debito pubblico – ce ne sono altri nascosti, se
non dalla realtà economica dai molti luoghi comuni che circondano l’argomento.
La moneta comune non è perfetta, resta un progetto incompleto sotto molti punti di vista. Richiede molto rigore - non solo fiscale... - da parte di tutti gli attori economici. Nel senso che fa emergere i mille problemi di un’economia, impedisce di nasconderli, impone di affrontarli. Fornisce però anche molti strumenti per farlo. Purché si voglia.
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