Per riuscire a mettere d’accordo Gentiloni, Hollande, Merkel e Rajoy, come è avvenuto lunedì scorso a Versailles, la formula dell’Europa a più velocità deve essere una di quelle perifrasi così elastiche da rimbalzare indietro al primo impiccio.
Per quanto riguarda il governo dell’economia, l’impiccio è evidente. La logica delle diverse velocità nell’ambito economico, così fondamentale per l’Unione europea, è che esista un’Europa minima, costituita dal progetto fondativo del Mercato Unico, oltre la quale ognuno persegua progetti più avanzati, privi però di un’architettura politica comune. È significativo che né i capi di governo riuniti a Versailles, né la Commissione europea nel suo Libro Bianco, abbiano fatto cenno a un’accelerazione dell’integrazione economica che invece era presente nel Rapporto dei Cinque Presidenti pubblicato solo nel 2015.
Proprio il Mercato Unico dimostra che i progetti che portano benefici misurabili in termini di crescita economica devono tradursi in forme graduali e indirette di integrazione che finiscono per assumere la forma di un vero sistema politico. Lo rivela in fondo proprio Brexit, il trauma che ha indotto gli altri europei a cercare una risposta e a scegliere il modello dell’integrazione a più velocità: una volta fuori dall’Ue bisogna uscire anche dal mercato unico e viceversa.
Il Mercato Unico può essere sostenuto solo sulla base di un sistema comune di leggi sottoposto al controllo di un’autorità giudiziaria comune, che nel caso europeo è la Corte europea di Giustizia. Ma se esiste un’autorità giudiziaria deve anche esserci un potere legislativo in grado di scrivere le leggi, come in effetti avviene attraverso il Consiglio Ue e il Parlamento europeo. Infine vi deve essere un potere esecutivo che applica e rende vincolanti le decisioni dei poteri legislativo e giudiziario, come avviene con la Commissione europea.
Come si vede, senza un quadro istituzionale completo è difficile salvaguardare il mercato unico. Così se un Paese ritenesse che la Corte di Giustizia o la Commissione europea interferiscono troppo con la sovranità nazionale, dovrebbe trarne le conclusioni e uscire dall’Ue, come è stata costretta a fare anche Londra, e non inventarsi un’impossibile diversa velocità.
Ma c’è un ulteriore carattere politico dietro al Mercato Unico. Paesi che commerciano intensamente tra di loro tendono ad avere modi di impiego sempre più simili del lavoro e del capitale. Finiscono per avere cioè strutture produttive paragonabili, metodi organizzativi analoghi, tecnologie e preferenze sociali che finiscono per assomigliarsi, nel bene e nel male. Qualora i cittadini volessero cambiare il loro modello sociale, come è logico nell’evoluzione dei fatti e secondo i princìpi di democrazia, si trovano però nella necessità di decidere insieme come farlo. L’esperienza storica dimostra che se si cerca di cambiare la realtà dell’economia globale da soli, si finisce per fallire.
Affinché questa dimensione della politica economica comune sia possibile, è necessario aggiungere l’unione monetaria e il governo comune delle economie. L’euro non è solo uno strumento per rendere paragonabili e trasparenti i prezzi tra partner commerciali, ma una risposta alle distorsioni, anche politiche, provocate dall’instabilità finanziaria dopo la liberalizzazione dei movimenti di capitale negli anni 80 e 90. Senza un governo comune dell’economia e della moneta si resta però a metà strada. Si mantiene un grado di incertezza sull’integrità dell’euro che di fatto serve a delegare la funzione di disciplina dei Paesi ai mercati finanziari, con le conseguenze non di rado perverse che si sono viste durante la crisi dell’euro.
Con una governance politica debole vengono messe in dubbio non solo le regole esistenti, ma anche le finalità del mercato unico. Infatti, se l’incertezza sul futuro dell’euro colpisce alcuni Paesi più di altri, costringendo i primi a vivere con un costo del credito più elevato, allora sul mercato unico ci sono condizioni adeguate allo scambio di beni, ma non alla circolazione del capitale e degli investimenti. Così non si riesce a uniformare le strutture produttive dei Paesi, né ad avvicinare le società, né le preferenze sociali. Al contrario, si cristallizzano le specializzazioni tra Paesi forti e Paesi deboli, sancendo una divergenza che diventa contrapposizione nelle scelte politiche, minacciando l’intero progetto.
Dietro le quinte del dibattito sulle diverse velocità, cioè sul mancato impegno comune a completare l’unione monetaria, c’è la scelta tra un sistema tecnico di regole e disciplina, e uno dotato di poteri e discrezionalità politica. Le due visioni si focalizzano sul ruolo del Meccanismo di stabilità europeo (Esm). Da un lato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble vede nell’Esm un organo tecnocratico dotato di poteri autonomi di disciplina nei confronti dei bilanci pubblici nazionali, in grado cioè di smascherare i trucchi contabili a cui molti governi nazionali ricorrono, con la compiacenza della Commissione europea, per fare più spesa elettorale del necessario. Dall’altro, la stessa Commissione, ritiene che l’Esm debba svilupparsi in un vero ministero europeo delle Finanze, dotato dei necessari margini di arbitrio per prevenire e contrastare problemi di natura economica e finanziaria che danneggiano tutta l’eurozona. Formalmente la scelta è tra un Fondo monetario europeo o un Governo economico dell’euro.
Gli sviluppi del confronto possono essere più concreti e rapidi del previsto. A Berlino si ritiene che il prossimo anno Atene avrà bisogno di un quarto programma di aiuti a cui però il Fondo Monetario Internazionale non vorrà più partecipare (o forse non potrà, sotto la pressione della nuova amministrazione americana) e in quell’occasione il suo posto verrebbe preso dall’Esm. All’istituto, a capo del quale è stato confermato per altri cinque anni Klaus Regling, andrebbero nuove competenze: l’analisi delle economie dei Paesi in crisi, l’elaborazione dei programmi di assistenza, la valutazione dei progressi nell’esecuzione dei programmi, e le eventuali sanzioni in caso di mancato rispetto degli impegni. All’Esm verrebbero attribuiti anche controlli preventivi che segnalino in anticipo errori nella condotta delle politiche economiche nazionali. Schäuble notoriamente vorrebbe affidare all’Esm il controllo delle finanze pubbliche di tutti i Paesi, non solo di quelli in crisi, sottraendolo alla Commissione, considerata troppo accomodante e troppo condizionabile politicamente.
La risposta della Commissione è venuta dal responsabile degli Affari economici e finanziari Pierre Moscovici a Berlino nei giorni scorsi. Il commissario ha ribadito di preferire il progetto di un Esm con funzioni da ministero delle Finanze europeo, cioè un proprio bilancio, grazie a risorse reperite con una tassa europea sulle transazioni finanziarie o con trasferimenti dagli Stati, per combattere la disoccupazione e rilanciare gli investimenti. In tal caso, l’Esm verrebbe integrato nella Commissione europea, nominandone a capo un vicepresidente dell’esecutivo Ue.
Di fatto si tratta del modello già contenuto nel rapporto dei Cinque Presidenti, il più avanzato tra i progetti di avanzamento dell’integrazione economica europea, tra i cui firmatari c’era anche Martin Schulz, allora presidente del Parlamento Ue e oggi sfidante della Merkel per la cancelleria. La posizione di Schäuble viene respinta perché, secondo Bruxelles, non si può affidare scelte politiche fondamentali a un organismo interamente tecnocratico. Ma è un fatto che del rapporto dei Cinque Presidenti non ci sia traccia nel Libro Bianco appena pubblicato dalla Commissione europea.
Schäuble sta studiando come modificare il Trattato dell’Esm, senza per forza passare da una modifica del Trattato di Lisbona che è considerata irrealistica, richiedendo un azzardato e lungo percorso di ratifiche nazionali. Ma al ministro resta troppo poco tempo in questa legislatura per imporre una revisione così radicale dell’architettura europea. I conflitti tra le capitali o con Bruxelles sarebbero troppo violenti. Mentre la cancelliera Merkel vorrebbe trovare un’intesa sulla trasformazione dell’Esm in un Fondo monetario europeo già in vista della celebrazione del Trattato di Roma il 25 marzo.
© Riproduzione riservata