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Fichera (Octagona): «In India, l’approccio mordi e…

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INTERVISTA

Fichera (Octagona): «In India, l’approccio mordi e fuggi porta solo a massimizzare le perdite»

Le celebrazioni del Festival dei colori (Holi), che segna l’arrivo della primavera (Vrindavan, Uttar Pradesh - 12 marzo)
Le celebrazioni del Festival dei colori (Holi), che segna l’arrivo della primavera (Vrindavan, Uttar Pradesh - 12 marzo)

Rispetto per una tradizione culturale molto ricca e molto diversa dall’Italia. E ottica di lungo periodo, perché «l’approccio mordi e fuggi porta solo a massimizzare le perdite». Sono i suggerimenti di chi, del traghettamento di aziende italiane nel mercato indiano, ha fatto la propria mission economica, come Alessandro Fichera, managing director di Octagona, società di consulenza nata nel 2002 e che oggi ha un fatturato di 1,5 milioni di euro (che sale a 8,5 con l’ingresso di Bonfiglioli Consulting nel capitale della società a febbraio). Nelle sedi di New Delhi e Bangalore, Octagona controlla un team di venti persone, coadiuvate da altre dieci in Italia e si una rete di collaboratori (in tutto le sedi in Italia sono quattro e cinque quelle estere, con oltre 80 tra dipendenti e collaboratori).

In 15 anni di attività, Octagona ha assistito 300 aziende italiane interessate ad affacciarsi sull’India. Solo 70, tuttavia, hanno deciso di fare il salto e di restare nel mercato, per lo più come presenza commerciale. «Proprio questo rapporto, 70 a 300, è il problema», commenta Fichera: «L’India è uno dei mercati più difficili del mondo per complessità logistica, operativa e culturale. A volte le aziende che si rivolgono a noi capiscono che non è per loro il momento opportuno per fare questo passo. Altre volte arrivano senza l’approccio giusto e magari chiudono nel giro di un anno, perché non pensano di non stare guadagnando abbastanza. Molte imprese si lanciano d’istinto, senza una corretta pianificazione». Un doppio passo falso. «Se da un lato anche chiudere una società in India è molto complesso, dall’altro bisogna avere un’ottica di investimento di almeno cinque anni. Chi ha avuto l’approccio giusto, ha portato a casa risultati molto importanti. E anche così non è abbastanza: «L’India non è un mercato maturo, bisogna chiedersi cosa succederà tra 15-20 anni».

Vi è mai capitato di scoraggiare qualche impresa italiana che voleva avvicinarsi all’India?

Cerchiamo di capire il livello culturale che c’è nelle imprese che ci contattano, se cioè sono in grado di sostenere il progetto non solo finanziariamente, ma anche culturalmente. Spesso dall’Italia ci si muove un po’ con la mentalità dei conquistatori, con una convinzione di superiorità e di poterla fare da padroni. Quando vediamo questo atteggiamento, raccomandiamo molta cautela.

Come ha visto cambiare il rapporto con gli apparati pubblici indiani in questi 15 anni?

Da quando è stato eletto il primo ministro Narendra Modi, le cose sono un po’ cambiate e si è spinto molto sull’utilizzo degli strumenti informatici. C’è molta più concretezza e responsabilizzazione dei funzionari. Invest India, l’agenzia che si occupa di attirare operatori esteri, è in grado di rispondere alle richieste di assistenza in 24-48 ore. Per quanto riguarda la giustizia, abbiamo clienti che sono riusciti a completare tre gradi di giudizio in due anni. Non mi sembra una situazione molto peggiore di quella italiana. Il fenomeno della corruzione, invece, rimane ancora rilevante.

Come è cambiato il contesto per le imprese?

Noi siamo entrati in India in un periodo di grande effervescenza e grande interesse per gli stranieri. Sia le imprese che le istituzioni indiane erano molto disposte a lavorare con noi. Poi c’è stato l’attentato di Mumbai, che ha preso di mira gli alberghi degli stranieri, e la crisi finanziaria. E gli entusiasmi da parte degli stranieri si sono un po’ smorzati. Con l’elezione di Narendra Modi si sono animate nuove speranze e gli stranieri vengono di nuovo visti come una grande opportunità per far crescere il mercato. Una fase ancora più elettrizzante rispetto al 2002. Modi ha fissato alcune priorità e dopo tre anni di mandato sta in effetti raggiungendo gli obiettivi, certo con i tempi lunghi di un sistema complesso come quello indiano.

Quindi questo è proprio il momento giusto per entrare?

Il momento giusto era anche nel 2002, chi l’ha fatto, come noi, adesso ha numeri importanti. Oggi il mercato sta crescendo molto, anche se la dinamica varia da settore a settore. In alcuni comparti mi viene da dire che si è già quasi in ritardo e ci si deve muovere in fretta prima che la finestra di opportunità si chiuda. Nelle ferrovie per esempio: l’India ha la seconda linea al mondo ed è tutta da ammodernare, perciò ha grande bisogno di tecnologia. L’Italia è un campione in questo segmento. I principali player mondiali, a partire dai francesi, ci sono già. Poi c’è il food processing: l’India trasforma una quota molto ridotta del cibo, con enormi sprechi che rendono molto complicato soddisfare i bisogni alimentari della popolazione. Anche in questo settore l’Italia è molto forte e l’interesse da parte indiana è evidente. Ma bisogna già confrontarsi con altri operatori, in particolare asiatici, che rischiano di chiudere gli spazi disponibili. Sulla componentistica per l’automotive invece è già quasi troppo tardi. In questo settore però bisognerebbe portare in India la produzione, perché il canale dell’export non ha già quasi più senso. Lo spazio c’è, perché i produttori locali non hanno ancora le tecnologie adeguate e si può entrare con una partnership. Sull’alimentare, invece, mi sembra ancora troppo presto, i numeri sono piccoli e il consumo è molto etnico.

Il fatto di avere due sistemi produttivi basati sulle Pmi e di avere grandi tradizioni culturali basta a dire che Italia e India sono Paesi simili?

No, non siamo simili. Abbiamo alcune caratteristiche in comune, ma cultura e modelli di pensiero sono molto diversi, a volte agli antipodi. Questo è proprio uno degli errori che facciamo noi italiani, pensare che gli indiani ragionino come noi. Loro al contrario sono molto esposti alla cultura occidentale, a certi livelli sociali lo studio all’estero è molto comune. Quindi sono in grado di comprenderci. Siamo noi che non comprendiamo loro.

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