NEW YORK
Wall Street sta archiviando un trimestre che è il proverbiale il racconto di due città. Una prima parte ancora tutta ottimismo sull’economia grazie alle promesse politiche di Donald Trump; gli ultimi giorni dominati invece dall’esplosione di dubbi. L’indice Dow Jones, pur restando in rialzo del 4% da inizio anno, ha sofferto la più lunga serie negativa, otto sedute, dal 2011. Il dollaro è sotto pressione, ai minimi da quattro mesi dopo aver toccato i massimi da 14 anni, mentre tornano in auge beni rifugio quali i titoli del Tesoro e oro. La ragione? Ancora e sempre la politica di Trump, questa volta a negativo: la doccia fredda del suo primo vero fallimento ha innescato la paura di nuovi gravi passi falsi che possano far deragliare l’agenda cara al business, le riforme fiscali e le infrastrutture. E a complicare anche la strada segnata dalla Federal Reserve verso una graduale normalizzazione della politica monetaria.
I mercati future scommettono che la Fed assumerà un atteggiamento attendista in occasione del prossimo vertice del 2-3 maggio, lasciando invariati i tassi d’interesse alla fascia dello 0,75%-1% alla quale li ha portati a metà aprile. Un’ulteriore mini-stretta appare al momento in bilico per la successiva riunione di giugno. Per l’intero anno la Fed ha finora mantenuto il timone fermo su una serie totale di tre interventi a fronte di una crescita che, nonostante i miglioramenti, non acceleri comunque oltre il 2 per cento. Ma il Governatore Janet Yellen ha ripetutamente avvertito che le implicazioni delle future iniziative della Casa Bianca sono una delle incognite cruciali.
La cautela potrebbe essere rafforzata dalle ripercussioni della sconfitta di Trump sulla sanità, che non è stata solo una debacle politica individuale dell’amministrazione. Costringe oggi a rivedere il calcolo delle aspettative: le ambizioni sulle tasse potrebbero essere ridimensionate per cercare di strappare una vittoria. Idee d’una complessiva riforma, mai riuscita negli ultimi trent’anni, secondo quanto trapelato ieri potrebbero essere congelate per concentrasi su circoscritti sgravi per imprese e famiglie.
Anche questo è più presto detto che fatto: in particolare l’idea di una “border tax” del 20% sulle importazioni è controversa, ma rinunciarvi cancellerebbe mille miliardi di dollari di entrare necessari a finanziare un taglio delle aliquote aziendali dal 35% al 25 per cento. Divergenze esistono inoltre sulle imposte sui guadagni della finanza, in particolare dei gestori di hedge fund. Il piano per le infrastrutture, mille miliardi da mobilitare in gran parte da privati con incentivi pubblici, è adesso a sua volta arenato.
Trump, tradito dai repubblicani ultra-conservatori, ha indicato che per sbloccare l’impasse di governo potrebbe aprire ai democratici moderati, una strategia resa esplicita dal suo capo di staff Reince Priebus nel corso del fine settimana. Ma non è chiaro quali ipotesi di compromesso sia in grado di offrire sulle tasse, che vedono il piano repubblicano puntare su tagli generalizzati che avvantaggerebbero anzitutto le fasce di reddito più alte. Nè sulle infrastrutture, dove i democratici chiedono ben più ingenti investimenti pubblici. L’impegno ad una vasta deregulation finanziaria che riscriva la legge anti-crisi Dodd-Frank è a sua volta sotto assedio e i titoli bancari ieri hanno ceduto fino al 2 per cento.
I guai della Casa Bianca non finiscono qui agli occhi dei mercati. La sua stessa credibilità appare oggi indebolita dal trascinarsi di potenziali scandali irrisolti. Ieri il genero e consigliere Jared Kushner, fresco di nomina alla guida di un Consiglio per innovare l’amministrazione che comprende leader hi-tech, ha accettato di testimoniare alla Commissione Intelligence del Senato sui legami suoi e di consiglieri di Trump con la Russia. Mosca ha cercato di influenzare il processo elettorale statunitense e finora il Presidente non è riuscito ad allontanare da sè i sospetti e le inchieste.
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