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Siria e Afghanistan, le bombe non riempiono il vuoto della politica

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SIRIA E AFGHANISTAN

Siria e Afghanistan, le bombe non riempiono il vuoto della politica

Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer
Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer

Bombe, missili, armi chimiche e tanta propaganda. La vicenda della Siria ha incrociato ieri il lancio in Afghanistan della più grande bomba americana non nucleare contro i tunnel dell’Isis: ma come sappiamo bene non ci sono bombe o missili che possano riempire il vuoto di una politica. Mentre Assad dichiarava a France Press di non avere mai usato armi chimiche e di non averne più avute dal 2013, accusando velatamente Washington di avere ordito una macchinazione, americani e russi difendevano la loro linea rossa. Anche Bashar ne ha una a Mosca: il ministro degli esteri siriano, Walid Muallem, oggi incontra il suo collega russo Lavrov a Mosca per tastare se la linea rossa della Russia sul cambio di regime a Damasco sia rimasta immutata nonostante le pressioni di Washington.

Quando Putin sente il fiato sul collo degli americani, come ha dimostrato l’Ucraina, di solito non reagisce bene: nel breve termine potrebbe raddoppiare il sostegno ad Assad. Questa almeno è la previsione di Fyodor Lukyanov, direttore del giornale russo Global Affairs, dopo la missione a Mosca del segretario di Stato Rex Tillerson.

La Siria ruota nell’orbita di Mosca dal 1971, quando Hafez Assad, il padre di Bashar, diventò presidente e sperava con l’aiuto militare sovietico di recuperare il Golan da Israele, perso nel ’67 quando lui comandava l’aviazione. Nasser era già morto mentre in Iraq non era ancora cominciata l’ascesa di Saddam Hussein che sarebbe diventato un concorrente del partito Baath di Damasco. Sono questi antichi legami che hanno portato la Russia a intervenire il 30 settembre 2015 salvando il regime dal collasso.

Se gli stati Uniti hanno la loro linea rossa - mostrare i muscoli della superpotenza e soddisfare gli alleati israeliani e sauditi - la Russia ne ha tracciata un’altra: non si fanno cambi di regime senza il consenso di Mosca, che aveva già dovuto inghiottire la caduta di Gheddafi nel 2011. Per questo i russi hanno opposto il veto all’Onu alla risoluzione di condanna di Assad. Un altro motivo chiave per cui Putin non costringerà presto Assad ad andarsene è che la Russia intende evitare una vittoria jihadista in Siria per le possibili ripercussioni nel Caucaso, sulla popolazione russa sunnita e nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, terreno fertile per l’islamismo radicale. La terza ragione per cui la Russia in questo momento non abbandona Assad è che vuole preservare le sue basi sulla costa siriana del Mediterraneo: un buon motivo per continuare anche l’alleanza con l’Iran e gli Hezbollah libanesi.

In Siria si stanno combattendo due guerre: una contro tra Assad e l’opposizione, un’altra contro il Califfato. Ma questi conflitti fanno parte di una guerra più ampia e di lungo periodo tra la mezzaluna sciita e quella sunnita cominciata nel 1980 quando l’Iraq di Saddam attaccò l'Iran di Khomeini e la Siria fu l’unico Paese arabo a schierarsi con gli ayatollah. Un conflitto continuato dopo la caduta del raìs iracheno con l’invasione americana del 2003 e l’ascesa a Baghdad di un governo a maggioranza sciita che ha sistematicamente emarginato i sunniti.

Il fronte sciita, con la presenza sul campo delle truppe e dell’aviazione americana, sta per mettere a segno una vittoria a Mosul, roccaforte dell’Isis ormai appesa a un filo. E per la prima volta in questo conflitto è possibile un accordo militare tra Baghdad e Damasco per dare la caccia ai jihadisti dello Stato Islamico. In poche parole il premier iracheno Haider al Abadi, appoggiato dagli americani, potrebbe apertamente allearsi con Assad, nemico degli Usa oltre che dei sunniti. Tutto questo mentre sul fronte siriano si stringe l’assedio intorno a Raqqa dove gli Usa sostengono come i russi una coalizione curdo-araba.

La transizione siriana è complicata ma soprattutto pone una domanda: gli Stati Uniti questa volta hanno un piano per il dopo Assad? L’unico che affiora, vagamente, è la spartizione in zone “cuscinetto” e di influenza, a Nord tra curdi e turchi, sul Golan degli israeliani, di alauiti-sciiti sulla costa, con russi e americani a fare da padrini, un secolo dopo Sykes-Picot, a una nuova tragica mappa del disordine mediorientale.

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