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Se Trump fa pace con la Cina ma litiga con la Ue

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L'Analisi|L’ANALISI

Se Trump fa pace con la Cina ma litiga con la Ue

Sarà un messaggio rassicurante quello che il Fondo monetario internazionale e i ministri delle finanze dei suoi 189 Paesi membri lanceranno da Washington nei prossimi giorni. Dopo anni di revisioni al ribasso, il quadro congiunturale dell’economia mondiale vede una crescita sospinta nelle varie regioni del mondo, con investimenti e commercio internazionale in ripresa, anche se continuano ad esserci Paesi, tra cui l’Italia, che presentano una situazione di maggiore difficoltà.

In realtà, le delegazioni ministeriali che raggiungeranno Washington nei prossimi giorni lo faranno soprattutto per comprendere e valutare le implicazioni delle politiche dell’amministrazione Trump sull’agenda internazionale. Anche su questo fronte, i segnali provenienti dalla amministrazione Trump sul terreno delle relazioni economiche internazionali sono, al momento, relativamente distensivi. Nel rapporto semestrale che il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha appena trasmesso al Congresso, l’amministrazione non ha identificato la Cina come manipolatore del tasso di cambio, nonostante le ripetute minacce formulate dallo stesso presidente a più riprese. L’esito del tanto atteso rapporto consolida il ruolo di Mnuchin come leader dei pragmatisti nell’amministrazione, mostrandone la capacità di influenzare il presidente su un dossier – quello della Cina – particolarmente delicato. Quando mesi fa, al culmine delle esternazioni di Trump sulle politiche del cambio di Pechino, gli veniva chiesta la sua opinione, lui serafico rispondeva che l’avrebbe espressa nel rapporto per il Congresso in aprile.

Quello che non aveva detto è che avrebbe trasferito la patata bollente a un altro dicastero, quello del Commercio estero, che ora sta approntando uno studio sugli abusi dei partner commerciali degli Stati Uniti, includendo nella sua analisi anche il disallineamento del tasso di cambio di tali economie.

La differenza non è puramente semantica perché il disallineamento è un concetto di lungo periodo e non implica l’intento del partner a perseguire una svalutazione per profittarne commercialmente, a differenza della nozione di manipolazione. Nel caso della Cina, la recente svalutazione della sua valuta si è materializzata in seguito a pesanti deflussi di capitale, i cui effetti sono stati in parte contenuti da interventi di segno contrario delle autorità monetarie di Pechino, come il rapporto correttamente riconosce. La nozione di abuso, in effetti, richiama quella di accesso simmetrico al mercato del Paese partner e del livello uniforme del terreno di gioco. In tale ambito, però, è difficile affermare che l’accesso delle imprese internazionali al mercato cinese sia simmetrico e uniforme.

Un’altra cosa che Mnuchin non aveva detto è che avrebbe mantenuto inalterati i criteri per identificare un Paese come manipolatore del proprio tasso di cambio, di fatto depoliticizzando la questione della valuta cinese e mettendo un’ipoteca distensiva sull’esito dei prossimi rapporti semestrali. Nell’impianto attuale, i Paesi che entrano nel radar dell’amministrazione hanno rilevanti surplus commerciali nei confronti del resto del mondo e degli Stati Uniti in particolare, ed effettuano interventi prolungati nel mercato dei cambi per conseguire un indebito vantaggio competitivo. La Cina ha violato solo uno di questi criteri, quello del surplus bilaterale con gli Stati Uniti che nel 2016 ammontava a quasi 350 miliardi di dollari, riflettendo anche l’enorme dimensione di entrambe le economie.

La Germania, invece, ne ha violati due su tre e continua a rimanere, con la Cina, nella lista grigia del Tesoro: oltre all’elevato surplus bilaterale con gli Stati Uniti, esibisce un surplus di parte corrente che, in termini nominali, è il più elevato al mondo, circa 300 miliardi di dollari a fine 2016. Poiché la Bce non interviene nel mercato dei cambi per alterare indebitamente il valore esterno della moneta unica, la Germania è, formalmente, al riparo. Ma il costo politico è l’inasprimento, in materia commerciale, della posizione negoziale americana nei confronti dell’intera Ue.

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