WASHINGTON - Non sottovalutate Donald Trump. Sarà anatra zoppa a casa, ma nel suo debutto internazionale, che comincia dall’Arabia Saudita, darà il meglio di sè. La coreografia era ed è mirata per consacrare il presidente come grande statista internazionale. Ed è vero che oggi è sotto attacco a casa, sotto la minaccia di un nuovo procuratore, ridicolizzato nei media come presidente “bambino” capriccioso, impulsivo, inadatto a guidare l'America.
Ma indipendentemente dalle controversie, dalle sue evidenti debolezze e, soprattutto, dal suo futuro, non bisogna confondere i pasticci di Donald Trump con l’impostazione di una linea di continuità della politica estera americana, orami saldamente in mano ai H.R. McMaster, capo della Sicurezza Nazionale, a Jim Mattis, capo del Pentagono, al segretario di Stato Rex Tillerson. Trump sarà anatra zoppa e debole, ma resta l'emblema - e la controparte - di una politica estera americana tornata sulla linea dell'”innovazione nella continuità”. E in questo viaggio ci saranno alcune innovazioni importanti corredate da due postulati: l'interlocutore per discuterle è Donald Trump e le conseguenze di nuovi accordi resteranno nella politica estera americana.
Alcuni esempi: la creazione di un'alleanza militare vincolante con il mondo islamico per combattere Isis e per contenere l'Iran ( si è parlato di un modello Nato!); il rilancio del negoziato di pace in Medio Oriente; lo spostamento del baricentro degli interessi di Washington sui vecchi alleati, come Arabia Saudita appunto e Israele ( sempre in chiave anti Iran); la firma di un accordo per vendere 110 miliardi di armi all'Arabia Saudita; un incontro con il Papa a Roma per ricucire un rapporto che si era deteriorato; una conferma della centralità della Nato e dell'Europa a Bruxelles; una conferma dell’approccio multilaterale americano nel contesto del G7 di Taormina. Tutto questo non potrà che rafforzare Trump rispetto alla crisi interna (a meno di una gaffe, con lui sempre possibile).
Cominciamo dall'aspetto più importante sul piano strategico: Trump ha scelto come prima tappa estera della sua presidenza l'Arabia Saudita. Non è cosa da poco. Il messaggio, con la tappa saudita, è molteplice: si torna a privilegiare un alleato trascurato dall'amministrazione Obama, gli si restituisce una centralità di leadership nel mondo islamico coreografando l'arrivo nello stesso giorno in cui si avranno i primi risultati delle elezioni iraniane; ci saranno incontri multilaterali con Paesi del Golfo nel contesto formale del GCC (Gulf Cooperation Council) e ci sarà un incontro con i rappresentanti di 50 Paesi islamici, molti di questi rappresentati a livello di capo di stato o di governo. L'Arabia Saudita emerge come leader religioso e politico nel mondo islamico determinato a contenere Isis.
È in quel contesto che si sancirà un'alleanza militare (attenzione, un'alleanza con 40 Paesi l'aveva già fatta Obama, ma questa forse sarà più vincolante sul piano militare). Se l'Arabia Saudita è felice perchè viene rafforzata, Trump è felice perchè potrà realizzare una sua promessa elettorale: coinvolgere direttamente il mondo islamico nella lotta contro Isis. Non solo, potrà dimostrare che, contrariamente agli attacchi che ha subito a casa per i limiti all'immigrazione da certi Paesi islamici, il suo rapporto con l'Islam è ottimo. Conoscendolo, l'arrivo dei 50 leader di altrettanti Paesi musulmani a Riad per incontrarlo, solleticherà non poco il suo ego. E possiamo scommettere che ce lo ripeterà piu' volte.
Dall'Arabia Saudita Trump andrà in Israele. Non era mai successo prima: Riad aveva sempre chiesto che un presidente americano facesse sempre tappa in un altro paese (il favorito era la Giordania!)prima di andare in Israele, per non avere un collegamento diretto. Non solo, quando Barack Obama andò in Egitto nel primo viaggio in Medio Oriente non andò neppure in Israele, segnalando un altro passo nei rapporti fra Washington e Gerusalemme. Se dall'Università del Cairo Obama incoraggiò le primavere arabe, Trump incoraggerà lo status quo in chiave anti iraniana con le prime tappe estere della sua presidenza prima a Riad e Gerusalemme. Certo Israele è rimasto male quando ha saputo che ci sarebbe stata anche una tappa a Betlemme per un incontro con Abu Mazen. In Israele ci si chiede dove andranno a finire le promesse elettorali tipo quella di trasferire l'Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, ormai passata in secondo piano. Gli architetti di Trump, McMaster, Tillerson e Mattis lo hanno convinto che se vuole davvero riavviare dopo 20 anni di stallo il processo di pace con un ruolo attivo dell'America ( formalmente il negoziato dovrà sempre essere diretto fra Israele e Palestina) dovrà essere più equilibrato rispetto alle promesse elettorali. E sia Nethaniahu che Abu Mazen, sapendo quanto umorale può essere il presidente, alla fine faranno buon viso a cattivo gioco.
Subito dopo la tappa israeliana, Trump andrà a Roma, vedrà il presidente Sergio Mattarella, ma vedrà soprattutto Papa Francesco. Il messaggio coreografico è di nuovo chiaro: pace fatta col Papa. Trump diventa il grande mediatore per riportare la pace nei luoghi sacri per le tre grandi religioni monoteistiche. Poi si continuerà in Europa e nel contesto multilaterale del G7. Ma sarà la prima parte del viaggio a dare a Trump il ritorno di immagine che cercava di avere. Questo non metterà in secondo piano i problemi aperti sui media con gli scandali interni. Non eviterà che durante il viaggio gli siano fatte domande imbarazzanti su ogni nuova rivelazione possibile. Ma le immagini daranno sicurezza a un presidente americano in stato di assedio e alla sua base. Entrambi sono convinti che davanti alle foto di abbracci di Trump con il mondo arabo, con il Papa, con gli israeliani, davanti allo sforzo per aprire alla pace, contenere l'Iran e combattere il terrorismo ci sarà una evidente, percepibile differenza, tra le “fake news” e un presidente che rafforza gli interessi americani nel mondo.
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