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Trump e l’ambiente, se l’America viene prima del pianeta Terra

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Trump e l’ambiente, se l’America viene prima del pianeta Terra

Il messaggio ambientalista proiettato da Greenpeace sulla cupola di San Pietro: il pianeta terra al primo posto
Il messaggio ambientalista proiettato da Greenpeace sulla cupola di San Pietro: il pianeta terra al primo posto

Ha definito l’effetto serra come una “truffa” contro l’economia americana, orchestrata dalla Cina. Ha proposto di decimare il budget dell’Agenzia per la protezione ambientale americana e al suo comando ha nominato l’uomo che l’aveva combattuta e portata in tribunale. Il clima è un “ponte” difficile sul quale costruire - o cominciare a costruire - una rinnovata partnership internazionale con Donald Trump. Ma è diventata questa, più dell’unità contro il terrorismo o della riaffermazione del ruolo della Nato, la posta in gioco dei summit in Europa tra le grandi potenze nei quali culmina il primo viaggio estero del presidente americano.

Su questo, già a Bruxelles e ancor più a Taormina nel G7, sono concentrati gli sforzi per evitare strappi e salvare Parigi - o meglio l’accordo sulla lotta al cambiamento climatico sottoscritto nella capitale francese nel 2015 sotto l’egida dell’Onu da parte di 200 Paesi e firmato per gli Stati Uniti dal predecessore e nemesi di Trump, Barack Obama.

La strada accidentata che ha condotto a questo punto mostra gli ostacoli da superare. Era solo marzo in Germania a Baden Baden quando il G20 dei ministri economici e finanziari ha fallito nel trovare un accordo su un altro grande fronte delicato, il commercio. Da quel comunicato erano svaniti quasi tutti i riferimenti, scolpiti nella tradizione del summit, all’impegno a favore del libero scambio sui mercati, scambi da cui scaturisce oltre metà del Pil mondiale. Un’impasse causata dalle inedite resistenze americane: il nazionalismo economico sposato dall’amministrazione Trump ha rimesso in discussione il multilateralismo e risollevato spettri di protezionismo. Allora il ministro del Tesoro di Trump, Steve Mnuchin, aveva segnalato la discontinuità cercata dall’amministrazione, affermando che Baden Baden era il suo primo G20 e di non sentirsi obbligato da ciò che era contenuto in precedenti testi.

Taormina è adesso il primo vertice globale di Trump. E un simile esito - che riveli se non rotture una vita da separati in casa - è quello che forse memori di Baden Baden tutti appaiono impegnati a evitare, a colpi di intense trattative in extremis tra le delegazioni. Già di per sé questo è bastato a seminare nervosismo: il giorno del summit arriva abitualmente con documenti ormai concordati dagli “sherpa” e solo più da annunciare, non con il timore di rese dei conti sulle formulazioni e complesse discussioni - in questo caso su vantaggi e rischi delle politiche climatiche. Ma segnali potenzialmente incoraggianti esistono in queste ore di frenesia diplomatica.

Dentro la stessa amministrazione statunitense sono emerse opinioni contrapposte, di cui sono portatrici due diverse “fazioni”: da un lato i grandi alfieri dell’economic nationalism, capitanati da esponenti quali il consigliere Steve Bannon e, appunto, l’attuale direttore dell’Agenzia ambientale Epa, Scott Pruitt, noto per il suo scetticismo sulla scienza dell’effetto serra. Dall’altro il segretario di Stato Rex Tillerson, l’ex chief executive di Exxon Mobil che come molti nello stesso settore petrolifero auspica però una sopravvivenza dell’accordo di Parigi e vede opportunità nelle energie rinnovabili. E con lui il capo consigliere economico Gary Cohn e due confidenti “di famiglia”, la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner.

Questa seconda corrente teme il rischio di indebolire la leadership americana sul palcoscenico globale, ancor più dopo che la Cina, il primo Paese inquinatore subito davanti agli Stati Uniti, ha invece riaffermato il proprio impegno sul clima. E intravede, proprio nei colloqui in prima persona di Trump con i leader dei Paesi del G7, la possibilità di creare aperture, forgiare tregue e compromessi.

Trump arriva però anche con il bagaglio della sua agenda di America First da difendere. Un bagaglio nato nella campagna di successo per la Casa Bianca, quando ai suoi elettori aveva promesso di stracciare l’intesa di Parigi, oltre agli accordi commerciali, denunciandola come perniciosa per gli imperativi dei posti di lavoro e dell’industria statunitense.

Un bagaglio che lo ha visto proporre un taglio di quasi un terzo, nel suo austero budget per il 2018, dei fondi destinati all’Epa, il risparmio più draconiano tra tutti i ministeri. Che tra le prime azioni del suo governo lo aveva visto cancellare con ordine esecutivo le regolamentazioni decise da Obama per rispettare gli impegni volontari presi a Parigi, cioè una riduzione di fino al 28% entro il 2025 delle emissioni di gas nocivi rispetto ai livelli raggiunti nel 2005 attraverso un piano nazionale di risanamento delle centrali elettriche. E che, nel G20 di Baden Baden, con gli impegni sul libero scambio lo aveva visto sacrificare i disegni di finanziamenti contro il global warming.

A volerli cogliere e coltivare, la natura volontaria degli impegni presi dai Paesi a Parigi lascia spiragli: le strategie concrete da seguire per ottenere obiettivi di riduzione delle emissioni sono lasciate alle singole nazioni. Soprattutto appaiono possibili modifiche degli stessi target nazionali, anche al ribasso seppure l’auspicio originale fosse semmai di dare spazio a maggiori ambizioni. Trump, che ha rinviato ogni decisione sull’accordo di Parigi al dopo il G7, potrebbe forse orientarsi verso obiettivi ridimensionati. Prima di tutto, però, la missione - per i leader alleati del G7 - è quella di non affondare il patto di Parigi a Taormina. Di accompagnare con cautela e senza eccessive aspettative il presidente americano sul ponte del multilateralismo, improvvisamente divenuto più fragile, non solo quando si tratta di sfide di sicurezza. Di riscoprire nonostante tensioni e diffidenze, sull’emergenza ambiente, il vecchio adagio di un’altra America, quella di Hollywood. «We’ll always have Paris». Avremo sempre Parigi.

Obama sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino con Angela Merkel

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