
Salvate l’Accordo di Parigi. È questo, declinato nelle lingue diverse dei Paesi, l’appello che esprimono gli ecologisti in occasione del G7 di Taormina. Per esempio una delle organizzazioni ambientaliste più vivaci, Greenpeace, ha allestito sulla spiaggia di Giardini Naxos la riproduzione di una Statua della Libertà dissepolta dalla sabbia, citazione da un film di fantascienza che fu “cult” negli anni 60 e 70 («Il Pianeta delle Scimmie») nel quale si pronostica che l’uomo distruggerà sé stesso e il suo pianeta.
Gli appelli vogliono difendere l’Accordo di Parigi del dicembre 2015, che al termine di una conferenza dell’Onu condivise tra tutti i Paesi l’obiettivo di impedire il riscaldamento dell’atmosfera. Vogliono difendere l’Accordo di Parigi perché sei Paesi del G7 sono univoci ma il settimo no.
Gli Stati Uniti e il loro presidente Donald Trump sembrano poco propensi a ratificare quell’intesa cui aveva aderito il suo predecessore, Barack Obama.
Ma nemmeno Obama né nessuno dei presidenti Usa hanno mai portato fino alla ratifica un accordo internazionale sul clima. Le politiche Usa contro le emissioni hanno preferito gli aspetti economici e applicativi e hanno tralasciato i princìpi, sui quali invece si fondano gli accordi europei e dell’Onu.
Per esempio Obama ha indebolito il ruolo del carbone tramite le normative tecniche dell’agenzia ambientale Epa modellate sullo shale gas. E anche Trump ha cambiato la rotta tramite un intervento sull’Epa.
Riuscì a coinvolgere gli Usa in politiche climatiche condivise solamente l’Italia tramite un’intesa raggiunta nella Rocca dell’Albornoz a Spoleto durante il G8 italiano del 2001, lo stesso G8 degli scontri di Genova. L’intesa fu formalizzata da George Bush e Silvio Berlusconi nel 2002.
Il G7 in corso a Taormina potrebbe far ripetere all’Italia quello stesso successo di mediazione. Ma è difficile. Le persone che negoziano oggi sono diverse da quelle di quindici anni fa. Ieri Paolo Gentiloni ha provato a darsi un ruolo da mediatore per spingere Trump verso una politica climatica condivisa. Ha conseguito un risultato modesto.
Potrebbe riuscire a mediare e a coinvolgere Trump un altro Paese, la Francia, e un altro capo di Stato, quell’Emmanuel Macron, il quale finalmente parla di passare dalle grandi dichiarazioni teoriche all’applicazione pratica.
L’applicazione pratica, gli strumenti, le “maniche rimboccate”, sono ciò verso cui paiono muoversi gli Usa.
Il segretario di Stato di Donald Trump, quel Rex Tillerson che fino a pochi mesi fa era al timone della compagnia petrolifera Exxon Mobil, è un sostenitore convinto delle politiche climatiche basate sui fatti. Basate sulle scelte del mercato, dei consumatori e degli azionisti, come due dei maggiori gestori di asset al mondo, BlackRock e Vanguard Group, i quali stanno valutando se esprimersi contro Exxon Mobile durante la riunione annuale degli azionisti del 31 maggio, per mettere sotto pressione il colosso petrolifero per i rischi collegati ai cambiamenti climatici.
È Tillerson uno dei promotori di una carbon tax che, adottata in modo uniforme in tutti i Paesi, potrebbe annullare i divari di competitività creati dalle politiche climatiche. Gli Usa non vogliono che le decisioni sul clima, cioè sulla disponibilità di energia, cioè sulla crescita economica, siano usate come leva commerciale per creare disparità sui mercati. L’obiettivo è armonizzare Paesi tartassati con quelli che non vogliono mettere freni alla loro crescita economica.
Proprio in questi giorni, per esempio, il Bangladesh ha deciso di adottare un meccanismo di carbon tax sui consumi di energia. Il popolatissimo Paese sul delta del fiume Gange, altezza sul livello del mare metri zero, è fra quelli più esposti dal rischio che il clima più caldo faccia sciogliere i ghiacci artici e faccia salire il livello del mare.
E una carbon tax anche per l’Italia? L’Italia, e in generale tutta l’Europa, pagano già imposte sanguisuga sull’energia ottenuta da fonti fossili, imposte inesistenti in altri Paesi che marciano a tutto carbone e tutto petrolio.
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