Il gravissimo attentato avvenuto ieri mattina nel cuore di Kabul - almeno 90 vittime e 400 feriti(di cui 10 americani) nel quartiere diplomatico di Wazir Akbar Khan - ci spinge a riflettere sul turbolento periodo che sta vivendo il martoriato Afghanistan . E ci suggerisce quattro considerazioni, difficili da confutare.
Dal ritiro delle truppe internazionali da combattimento (missione Isaf), completato alla fine del 2014, la situazione è tutt’altro che migliorata. Anzi, non è fuori luogo sostenere che sia peggiorata.
È grande motivo di preoccupazione che non ci sia una sola area del Paese che non sia vulnerabile. E l’attentato di oggi a Kabul è solo l’ultimo di una lunga serie. Colpa di un Governo afghano ancora fragile e di un esercito nazionale male addestrato e non all’altezza di un compito così arduo.
Altro punto critico. La crescente penetrazione dei gruppi legati all’Isis è una realtà di cui occorre prendere atto , e affrontare.
Infine la guerra in Afghanistan non si vince scagliando dal cielo la madre di tutte le bombe (come avvenuto in aprile contro postazioni dell’Isis), ma probabilmente richiederà più stivali sul terreno e strategie di lungo termine.
Sono quattro questioni spinose. A cominciare dalla sicurezza. Se è vero che circa metà del territorio, per quanto siano soprattutto zone rurali, è controllato dai gruppi di insorti, la priorità per il Governo afghano è mostrare al mondo che almeno la capitale Kabul, cuore delle istituzioni e sede delle ambasciate straniere, sia al sicuro. Purtroppo non è così. La cronaca degli ultimi mesi racconta quanto la capitale afghana, anche i quartieri più protetti come quello colpito oggi, sia divenuta un obiettivo facile per gli estremisti. Solo per ricordare i più cruenti attentati, 27 giorni fa un’auto bomba, rivendicata dall’Isis, è stata fatta esplodere al passaggio di un convoglio di truppe straniere, nei pressi dell’ambasciata americana (otto i civili rimasti uccisi). E non sono trascorsi nemmeno tre mesi dall’8 marzo, quando un commando di quattro terroristi (tra cui un kamikaze) travestiti da medici, e rivendicato ancora una volta dalle cellule dallo Stato islamico della provincia del Khorasan, aveva colpito ancora una volta il cuore del quartiere diplomatico di Kabul uccidendo più di 30 persone, tra le quali diversi medici e infermieri. Un mese prima, il 7 febbraio, sempre le cellule afghane legate all’Isis avevano fatto esplodere i loro kamikaze davanti alla Corte suprema di Kabul falciando la vita a quasi 30 persone.
Elencare gli attentati che avvengono con cadenza quasi quotidiana nel resto del Paese richiederebbe un continuo aggiornamento. Ma il grande attacco sferrato lo scorso mese contro un centro di addestramento dell’esercito afghano nella città settentrionale di Mazar-e Sharif – ritenuta una delle più sicure prima del ritiro delle truppe Nato - ha ucciso 135 soldati, spingendo il ministro della Difesa a rassegnare le sue dimissioni.
Veniamo al secondo punto. Per quanto numerose (320mila unità, ma meno della metà effettivi), le forze di sicurezza afghane non sono ancora in grado di contrastare efficacemente l’offensiva dei Talebani e dell’Isis. Siamo in una situazione di stallo, se non peggio. Ma i 13.300 militari stranieri di “Resolute support”, la missione solo di addestramento, che dal 1° gennaio 2015 ha sostituito Isaf, non appaiono sufficienti. È vero che su 8.400 soldati americani, 2.500 sono impegnati in operazioni anti-terrorismo contro al-Qaeda e l’Isis. Ma il numero è inadeguato.
Dopo aver tentennato per diversi mesi, il presidente americano Donald Trump sembra voglia ascoltare il parere dei suoi strateghi militari ed inviare ulteriori 5mila soldati. A condizione che anche i Paesi stranieri amici facciano la loro parte. Significherebbe dunque che anche all’Italia, che vanta il secondo contingente per numero in Resolute Support (oltre mille militari), possa essere avanzata una richiesta analoga. Ma anche in questo caso non saranno 5mila o 8mila soldati in più a fare la differenza. Per ottenere dei successi concreti Barack Obama portò il numero dei soldati americani a più di 100mila, oltre alle truppe straniere dell’Isaf.
Se solo potesse farlo, forse Trump preferirebbe lasciare l’Afghanistan abbandonato a sé stesso. Ma l’Afghanistan è una crisi a cui un presidente americano non può sottrarsi. Ora che la Russia sta cercando di rafforzare la sua influenze in quest’area, la guerra più lunga combattuta dagli Usa – siamo al 17° anno - , e tra quelle costate di più ai suoi contribuenti (oltre mille miliardi di dollari), sta mettendo Trump in un angolo, forzandolo ad intensificare gli sforzi.
Ma è bene ricordare che in questo paese montagnoso, la guerra non si vincerà bombardando dal cielo. Si rischiano peraltro “danni collaterali”, vittime civili uccise per errore, che renderebbero la popolazione afghana ancor più ostile verso gli Stati Uniti. La guerra si vince anche con altre strategie. Più uomini sul terreno accompagnati da un reale processo di counter insurgency per portare la popolazione dalla propria parte. E soprattutto investendo in progetti educativi e infrastrutturali, e rendendo più credibili e trasparenti le istituzioni, ancora oggi invise a molti afghani perchè corrotte.
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