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L’ultima parola su Brexit agli unionisti nordirlandesi

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ago della bilancia nel nuovo governo may

L’ultima parola su Brexit agli unionisti nordirlandesi

La leader del Democratic Unionist Party a Belfast
La leader del Democratic Unionist Party a Belfast

A pesare sui contorni di Brexit potrebbero essere più gli unionisti nordirlandesi che i conservatori di Theresa May. Questo il paradosso emerso dal voto anticipato che - anziché rafforzare la premier, come era nei suoi auspici - la costringe a fare affidamento sui dieci seggi conquistati dal Dup, il Partito democratico unionista dell’Irlanda del Nord, stampella indispensabile di un governo di minoranza Tory che può contare solo su 318 deputati su 650.

«I nostri due partiti – ha dichiarato Theresa May – hanno costruito negli anni una relazione solida e questo mi rende fiduciosa che potremo lavorare insieme nell’interesse dell’intero Regno Unito». Non è difficile però immaginare che il primo interesse a cui guarderà il Dup, divenuto improvvisamente ago della bilancia della politica britannica, sarà quello dell’Irlanda del Nord, perlomeno quello che la parte protestante e unionista dell’isola considera tale. A cominciare dai negoziati su Brexit.

Una Brexit più soft?

Ma che Brexit vogliono gli unionisti nordirlandesi? Nel referendum dell’anno scorso il Dup (che è il maggiore dei partiti unionisti protestanti dell’Ulster) si schierò con convinzione per l’uscita dall’Unione europea, a differenza dei nazionalisti cattolici del Sinn Fein (e della maggioranza dell’Irlanda del Nord, che si espresse al 56% per “Remain”); il partito tuttavia vorrebbe un divorzio con meno ripercussioni possibili sul confine “caldo” con la Repubblica d’Irlanda, soprattutto sul fronte commerciale: oggi circa il 30% delle esportazioni nordirlandesi è diretto a Sud ed è fonte di grande preoccupazione l’uscita del Regno Unito dal mercato unico.

Nel manifesto del Dup si auspica il mantenimento della Common Travel Area tra Irlanda e Regno Unito per ciò che concerne la libertà di movimento e il raggiungimento di un accordo di libero scambio e doganale con la Ue una volta che la Gran Bretagna ne sarà uscita nel 2019. Di fatto una “soft Brexit”, almeno sul fronte economico-commerciale, in linea con le aspettative di Theresa May, anche se piuttosto problematica vista la posizione negoziale espressa in partenza da Bruxelles.

Le ripercussioni in Irlanda del Nord
Quello su cui gli unionisti la vedono in modo diverso e più intransigente è l’ipotizzata concessione di uno “status speciale” all’Irlanda del Nord all’interno della Ue per evitare i citati problemi al confine. All’ipotesi il Dup si oppone fermamente, temendo che questo status venga utilizzato dai rivali dello Sinn Fein come grimaldello per unire l’Irlanda del Nord all’Eire, separandola dal Regno Unito.

È insomma la frattura originaria all’origine di decenni di scontri in Irlanda del Nord, faticosamente sedati con l’accordo di pace del Venerdì santo 1998. Un accordo che, sul piano politico interno, ha stabilito tra l’altro una condivisione del potere tra unionisti e nazionalisti che negli ultimi mesi scricchiola e che non è stato possibile ristabilire dopo le elezioni locali del 2 marzo scorso. La svolta politica di Londra rischia di non agevolare le cose se, come è prevedibile, spingerà Theresa May a privilegiare le richieste unioniste.

I possibili contrasti con i Tory
Gli altri nodi per la riconfermata ma più fragile premier Tory potrebbero riguardare l’agenda interna del governo britannico. Il Dup vuole più spese per la difesa, un aumento del salario minimo, tagli alle bollette energetiche delle famiglie e aumenti alle pensioni non in linea con il manifesto pre-elettorale di Theresa May. Senza contare i temi sociali, su cui gli unionisti – particolarmente chiusi su aborto e omosessualità – appaiono in conflitto con le vedute più liberali del resto del Regno Unito, conservatori compresi.

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