«Difficoltà nell’identificazione dei contribuenti e dei redditi imponibili, mancanza di informazioni sui prestatori di servizi, una pianificazione fiscale aggressiva, in particolare da parte delle imprese nel settore digitale, differenze pratiche fiscali in tutta l’Ue e scambio insufficiente di informazioni». Così la Commissione europea ha riassunto i problemi emersi nell’adempimento e nell’applicazione degli obblighi fiscali all’articolato mondo della sharing economy.
A monte c’è però una questione preliminare: l’economia collaborativa è qualcosa che il legislatore nazionale deve normare ad hoc oppure no? Nel mondo ci sono Paesi che hanno deciso di non farlo (come gli Usa e l’Australia) e altri che invece l’hanno ritenuto opportuno (come il Belgio). Così come ci sono esempi di buona cooperazione tra le autorità fiscali e le imprese del settore: vedi l’Estonia, dove – sottolinea la stessa Commissione – si è deciso di semplificare la procedura di dichiarazione fiscale dei guidatori con la collaborazione delle piattaforme di carpooling. Le transazioni tra autista e passeggero sono registrate dalla piattaforma, che invia alle autorità solo i dati pertinenti ai fini fiscali (che servono poi a precompilare i modelli del contribuente).
E in Italia? Oltre alle norme in discussione in Parlamento (si veda l’articolo in alto), ci sono altre questioni che andrebbero affrontate. Restando nell’ambito del car pooling, sarebbe innanzitutto necessario chiarire la distinzione tra quel che è reddito e quel che rappresenta invece un mero rimborso. «Per farlo, si potrebbero individuare criteri certi e di facile impiego. La Cassazione francese, ad esempio, ha stabilito che il rimborso non costituisce reddito se non eccede i costi fissi e proporzionali relativi al viaggio. Circa i limiti quantitativi, in Italia si potrebbe far riferimento alle tabelle Aci. Oppure, in alternativa, si potrebbero inserire puntuali soglie di esonero contributivo e dichiarativo», osserva Giorgio Beretta, ricercatore in diritto tributario presso la Liuc–Università Cattaneo, ateneo che il mese scorso ha organizzato il primo convegno in Italia sui profili giuridici e fiscali della sharing economy.
Per incentivare l’attività di condivisione, prosegue Beretta, «queste soglie di esonero contributivo potrebbero essere applicate anche alle prestazioni di servizi, quando si tratta di attività non abituali, come nel caso del rider puramente occasionale per Deliveroo». E ancora, anziché procedere a una deduzione analitica dei costi si potrebbe pensare a «deduzioni forfettarie differenziate a seconda del settore di attività, come già previsto per il regime forfettario».
È chiaro, comunque, che un conto è semplificare, un altro è incentivare. Se il primo obiettivo è facilmente condivisibile e favorisce anche la regolarità fiscale, il secondo implica anche valutazioni e scelte di politica legislativa. Ad esempio, riferisce ancora Beretta, «il Regno Unito dal 2016 ha introdotto un’esenzione per i redditi da capitale derivanti anche dal peer-to-peer lending (i finanziamenti “tra pari”, ndr) non superiori a 1.000 o 500 euro a seconda della fascia contributiva del contribuente». Una scelta tutto sommato “forte”, visto che riguarda un’attività delicata e generalmente ben regolamentata come il prestito di denaro.
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