Mondo

Perché la Fed potrebbe rallentare la stretta sui tassi

  • Abbonati
  • Accedi
POLITICA MONETARIA

Perché la Fed potrebbe rallentare la stretta sui tassi

Il momento è arrivato. A tre anni dalla fine del quantitative easing, la Federal reserve dovrebbe annunciare nella sua riunione di settembre l’inizio della riduzione del proprio bilancio, un processo i cui dettagli tecnici sono stati rivelati a giugno. Non è una novità, quindi, e difficilmente il mercato sarà condizionato da un annuncio ormai atteso e ampiamente “digerito”. Più interessante sarà la valutazione dell’andamento dell’inflazione, perché potrebbe spingere il board a rallentare ulteriormente la stretta.

Ridurre il bilancio, ora
Il bilancio della Federal reserve è rimasto fermo a quota 4.450 miliardi di dollari, il 25% del prodotto interno lordo americano, da settembre 2014. A gennaio 2008 era pari a 922 miliardi: tre successive operazioni di acquisti di titoli hanno dunque quintuplicato le dimensioni delle attività detenute dalla banca centrale di Washington. Dopo tre anni, e dopo aver iniziato un lento rialzo dei tassi di interesse, la Fed ritiene ora di poter iniziare una graduale discesa.

IL BILANCIO DELLA FED
In milioni di dollari. (Fonte: Federal reserve)

È il momento giusto?
È probabilmente il momento giusto. Rischi di deflazione non ce ne sono: la probabilità che si verifichi una prolungata flessione dei prezzi tra il 2017 e il 2022 è pari, secondo i calcoli della Fed di Atlanta, al 4%. I tassi reali americani sono intanto piuttosto bassi. Più bassi, per esempio, dei rendimenti del settembre 2014, quando il bilancio della Fed cessò di crescere. Da allora il costo del credito è aumentato: a dicembre del 2015, quando i tassi ufficiali – i Fed funds rate – furono rialzati per la prima volta dopo la Grande recessione, erano più alti, e ancora a fine 2016 erano più elevati del livello dell’autunno 2014. Sono scesi piuttosto rapidamente in questi ultimi mesi segnalando un ulteriore allentamento delle condizioni monetarie.

CURVA DEI RENDIMENTI REALI
Titoli di Stato Usa. (Fonte: U.S. Treasury)

Il nodo del dollaro
Anche l’andamento del cambio effettivo del dollaro conferma che le condizioni monetarie si sono allentate da inizio anno. La flessione è stata importante e ha riportato la moneta americana – nei confronti delle valute dei partner più importanti – sulla sua media di lungo periodo (1990-2017). Si potrebbe ipotizzare che la Fed sia restia a favorire un apprezzamento del dollaro, ma l’andamento della valuta ha poco effetto su importazioni ed esportazioni: gran parte dei listini sono direttamente espressi in dollari e la variazione del cambio incide più che altro sui margini e, in sede di redazione dei bilanci, sulla redditività delle imprese. Lo Standard & Poor's, ai massimi, lascia spazio alla Fed di agire: i consumi dipendono molto dalla ricchezza delle famiglie – anche la Borsa, negli Usa – e i banchieri centrali americani sono sempre molto attenti all'andamento di Wall Street, ma in questa fase c’è addirittura da temere un surriscaldamento delle quotazioni: una sorta di “inflazione finanziaria”.

DOLLARO, CAMBIO EFFETTIVO

I tempi del prossimo rialzo dei tassi
La decisione di iniziare la riduzione del bilancio potrebbe diventare ancora più semplice se, come immaginano alcuni analisti e inflazioni, la stretta rallenterà ancora. Le attese puntano su dicembre per il prossimo rialzo dei tassi ufficiali, oggi all’1-1,25% e su questo non ci sono al momento troppe incertezze. Il recente dato sull’indice dei prezzi al consumo, salito all'1,9% ha anzi rafforzato queste attese. La Federal reserve definisce però il suo obiettivo di inflazione, il 2%, sulla variazione annuale dell’indice trimestrale dei prezzi dei consumi personali (Pce – Personal Consumption Expenditure) che a marzo aveva toccato il 2% ma che è poi tornato a giugno all’1,6%, vicino alla media che ormai prevale dallo scoppio della crisi. Anche con l’aiuto delle nuove proiezioni economiche, la banca centrale Usa deve ora valutare qual è la tendenza di fondo dell’inflazione che per il momento sembra comunque oscillare a livelli piuttosto bassi.

INFLAZIONE USA
Indice Pce trimestrale var. annua. (Fonte: Fred - St. Louis Fed)

La curva di Phillips, ancora
Anche la Federal reserve, come la Bce, si aspetta in realtà un aumento dell’inflazione sulla base della curva di Phillips. Il calo della disoccupazione – secondo questa relazione, puramente statistica – dovrebbe prima o poi spingere in alto i prezzi. La disoccupazione però è da tre anni al di sotto della media di lungo periodo (1980-2017, pari al 6,4%) e l’inflazione non ha dato segnali sicuri di voler tornare al livello desiderato, il 2%, pur avvicinandosi gradualmente.

DISOCCUPAZIONE E INFLAZIONE
2010 -2017 (Fonte: Fred - St. Louis Fed)

Un’indagine molto superficiale – effettuata in termini di analisi esplorativa, adatta solo per elaborare ipotesi - mostra sia per il lungo periodo che per un orizzonte temporale meno ampio anzi una relazione inversa, più forte nel dopo crisi: se la disoccupazione scende di un punto percentuale, l’inflazione cala - e non sale, come è invece desiderato - di circa 0,25 punti, e il mercato del lavoro spiega davvero poco della dinamica dei prezzi. L’inflazione di oggi – negli Usa come in Eurolandia - sembra dipendere in maniera preponderante dall’inflazione di uno-due mesi fa.

“Pazienza” anche per la Fed?
La presidente Janet Yellen ha però ripetuto più volte che, malgrado la curva di Phillips sia piatta e quindi «l’inflazione non risponde molto o molto velocemente ai movimenti dell'occupazione», la relazione tra disoccupazione e inflazione «resta operativa». Più recentemente Lael Brainard, una delle componenti del board, ha invece ammesso che «ci sono ragioni per temere che la curva di Phillips non sia molto affidabile» chiedendo però che la dinamica dei prezzi superi l’obiettivo del 2% per qualche tempo. Non si può del tutto escludere, quindi, che ci siano pressioni interne per rallentare ulteriormente la stretta e invocare – come ha fatto la Bce nelle ultime settimane – un po' di «pazienza» sulla dinamica dei prezzi. I “dots”, i puntini che nei grafici della Fed indicano le attese sui tassi dei governatori, saranno quindi al centro dell’attenzione.

© Riproduzione riservata