A Barcellona e a Madrid la battaglia di principio ha travalicato ogni ragione, ogni argomentazione, legittima o irricevibile. Si lavora per il dopo 1-O, per quello che accadrà dopo il primo ottobre, quando, in un modo o nell’altro, la Catalogna sarà andata oltre il referendum sull’indipendenza. Ma nessuno può prevedere cosa accadrà domenica.
La regione più ricca della Spagna ambisce a diventare nazione. Una larga maggioranza dei catalani è a favore del referendum e non sopporta che le venga negato il diritto di scegliere, anche se sono per l’indipendenza solo quattro cittadini su dieci: la ripresa economica iniziata due anni fa ha raffreddato l’entusiasmo per l’indipendenza che aveva trovato terreno fertile nella gravissima recessione. «I catalani - spiega il manager di un’impresa nata e cresciuta a pochi chilometri dalle Ramblas - difendono la loro cultura, la loro lingua, la tradizione democratica contro la dittatura franchista. Ma sono soprattutto gente che si dà da fare e fa affari. Vogliamo gestire da soli la ricchezza che produciamo, le entrate fiscali, per migliorare le infrastrutture, a cominciare dai porti, per sviluppare collegamenti diretti con l’Europa e con il mondo, senza passare da Madrid».
La Catalogna anche in economia ha caratteristiche che la distinguono dalle altre regioni spagnole: ha un’industria più sviluppata, una maggiore apertura verso l’estero, un mercato del lavoro più dinamico. Con 609mila imprese attive e un Pil di oltre 200 miliardi di euro vale un quinto dell’output nazionale e può essere paragonata alla Finlandia o al Portogallo. Il Pil pro capite catalano sfiora i 30mila euro all’anno ed è sensibilmente più elevato della media spagnola che si ferma a 24mila euro.
L’industria ha un peso del 21% sul Pil della regione catalana mentre in Spagna non supera il 19 per cento. Le esportazioni, in costante crescita, raggiungono quasi il 35% del prodotto interno lordo e la naturale proiezione verso l’estero è confermata dalle mille imprese straniere che hanno aperto nuovi stabilimenti in Catalogna a partire dal 2003 per un investimento complessivo di circa 40 miliardi di euro (oltre il 25% degli investimenti diretti in tutta la Spagna nello stesso periodo), soprattutto nell’automotive, nei trasporti, nella chimica e nella farmaceutica.
«Sono catalano, la mia famiglia è catalana, e sono a favore dell’indipendenza ma il clima è diventato rovente, meglio non esporsi troppo anche per non danneggiare la nostra attività», aggiunge il manager che con la sua impresa è tra i fornitori del colosso del tessile Inditex. «Nessuno qui vuole fare troppa confusione: la confusione fa male al business. In molti - spiega - cominciano a pensare che questa battaglia per l’indipendenza alla fine potrebbe portare più danni che vantaggi».
Per le piccole imprese e per il piccolo commercio l’indipendenza della Catalogna non porterebbe grandi cambiamenti. Molto diversa la prospettiva per i grandi gruppi legati ai mercati internazionali o vincolati comunque alla Spagna: oltre a Inditex, il gestore aeroportuale Aena, ma anche Abertis nelle infrastrutture, o a Volkswagen che ha tre stabilimenti nella regione, fino a Nestlé, ad Airbnb che qui ha il suo quartier generale, e alle grandi banche.
La Ceoe, la Confindustria spagnola presieduta da Juan Rosell, osserva con «profonda preoccupazione la situazione creata dalla convocazione del referendum illegale e teme un impatto negativo sulle imprese e sulla fiducia degli investitori». Per questo ha scelto di schierarsi «con la legalità e per il rispetto rigoroso della legge» ma ha anche voluto sottolineare che «esiste un problema politico molto ampio che deve essere affrontato con urgenza e con volontà costruttiva perché non intacchi la convivenza sociale e la prosperità economica».
Anche dal punto di vista economico, la perdita della Catalogna sarebbe un colpo pesantissimo per la Spagna che, tra le altre cose, intende evitare una reazione a catena che potrebbe coinvolgere i Paesi Baschi e la Galizia. L’indipendenza aprirebbe tuttavia una fase di grande incertezza anche per la Catalogna che non potrebbe far parte della Ue e sarebbe costretta a faticosi negoziati bilaterali internazionali. Per il ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos, «l’indipendenza sarebbe un suicidio economico e finanziario per la Catalogna che potrebbe perdere fino al 30% del suo Pil». Ma le analisi, come è ovvio, divergono. Per gli esperti di Goldman Sachs, ad esempio, per arrivare a una soluzione della questione catalana è necessario dare maggiore autonomia alla regione tornando allo Statuto che la Catalogna si era data nel 2010 e alla bocciatura della Corte Costituzionale che ha segnato forse l’avvio dello scontro con la Spagna.
Per il governo spagnolo di Mariano Rajoy e per la legge spagnola il referendum è «illegale» e il voto «non avrà alcun effetto». La Generalitat, il governo catalano guidato da Carles Puigdemont, è pronta a dichiarare l’indipendenza 48 ore dopo la vittoria del Sì al referendum che non prevede quorum.
A Barcellona e a Madrid, molti temono che domenica la situazione possa sfuggire di mano, che la contrapposizione possa diventare violenza. La sindaca di Barcellona, Ada Colau, è tornata a chiedere l’intervento della Ue per riaprire un negoziato tra Spagna e Catalogna. Non è giunta alcuna risposta. Anche da Bruxelles guardano con il fiato sospeso a lunedì, al dopo 1-O.
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