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Trump, una politica estera imprevedibile

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l’analisi

Trump, una politica estera imprevedibile

(Ap)
(Ap)

La riunione risale a luglio, ma affiora solo adesso e getta nuova luce sulla politica estera di Donald Trump - su quel nodo caotico e sempre ad un passo da crisi che caratterizza i rapporti internazionali nell’era di America First. Il Presidente, ha rivelato Nbc, avrebbe chiesto durante un incontro del consiglio di sicurezza nazionale di decuplicare l’arsenale nucleare americano. Un’idea subito sgonfiata dai collaboratori, citando trattati e ragioni militari. Ma che spinse il Segretario di Stato Rex Tillerson, in disparte, a definire Trump un “moron”, un imbecille. E che ha dato il via a una escalation nelle faide interne all’Amministrazione, con Tillerson che avrebbe considerato le dimissioni, mentre la posta in gioco si fa sempre più scottante, dallo scontro con la Corea del Nord all’Iran - dove Trump potrebbe in queste ore decertificare l’accordo multilaterale sul nucleare - dallo strappo sul cambiamento climatico a quello degli accordi commerciali.

Trump nega qualunque stato confusionale della sua politica - e ieri ha risposto alle ultime rivelazioni minacciando di revocare la licenza televisiva alla Nbc per rappresaglia. Ma l’episodio estivo, seppur eclatante, non è isolato. Gli editoriali del New York Times infieriscono definendo la politica estera americana un “circo”. Il giudizio più caustico, su Trump, spetta ad un senatore del partito repubblicano, il capo della Commissione Esteri Bob Corker: l’irresponsabilità di Trump, ha detto, può portare alla Terza Guerra Mondiale. Tratta la presidenza come un Reality Show e la Casa Bianca sembra ridotta a un asilo infantile.

Non manca chi invita alla pazienza. Un’analisi della rivista Foreign Affairs dipinge il «peggior primo anno mai vissuto» sotto un neopresidente ma ricorda che il debutto di un’amministrazione è stato spesso, storicamente, molto travagliato. Ed ex esponenti dell’ultimo governo repubblicano, quello di George W. Bush, suggeriscono che se l’apprendistato internazionale è tradizionalmente di una dozzina di mesi, questa volta il “periodo di prova” potrebbe essere raddoppiato prima di trovare un assestamento. La “macchina” della nebbia all’orizzonte della diplomazia sotto Trump ha però caratteristiche e ripercussioni che preoccupano numerosi veterani di Washington di entrambi i partiti, oltre a molti paesi alleati. Uno di questi è Stewart Patrick, oggi al centro di ricerca Council on Foreign Relations e in passato, tra il 2002 e il 2005, esponente del team di pianificazione politica del Ministero degli Esteri, con responsabilità su Afghanistan e migrazioni e autore del volume in uscita e dal titolo rivelatore, “Le guerre della sovranità: Riconciliare l’America con il Mondo”. Patrick avverte che i potenziali danni d’una gestione incoerente, istintiva, rabbiosa e “transazionale” della politica estera possono essere sia ravvicinati, nel trattare problemi subito in agenda,che di lunga durata, minando credibilità e immagine, hard power e soft power americani.

«Potrebbe lasciare un’eredità più profonda di quanto alcuni credono», dice. Di radicato scetticismo su approcci globali e di cooperazione alle sfide, di rinuncia a ruoli di leadership e di rilancio di nazionalismo e populismo. Patrick non crede si possa parlare di “dottrina Trump”, piuttosto d’un “approccio altamente personalizzato di quello che definisce come il primo “indipendente” eletto alla Casa Bianca seppure sotto le bandiere del partito repubblicano. «I suoi predecessori valorizzavano prevedibilità, certezza; lui ama il caos e l’imprevedibilità, come si vede nelle tensioni sull’accordo con l’Iran e nelle dichiarazioni esplosive su Pyongyang».

Solidi consiglieri attorno a lui oggi spesso correggono il tiro delle sue affermazioni, da Tillerson al Segretario alla Difesa James Mattis e al national security advisor HR McMaster. Patrick ammonisce però che sarebbe un errore sopravvalutarli, perché «è Trump il Presidente». E denuncia, al di là di singole posizioni controverse, quello che considera il «generale disarmo unilaterale in atto della diplomazia americana», fatto di tagli di budget e di molte posizione chiave scoperte, che lascia orfani di istruzioni e strategie i professionisti del Dipartimento di Stato e senza adeguati punti di contatto alleati e avversari.

Due sono ora le sfide immediate. La Corea del Nord è la più pericolosa: «Insultare il leader d’un regime paranoico, armato di ordigni atomici, la cui priorità è la sopravvivenza e che dato il suo isolamento potrebbe non capire gli Stati Uniti, rischia di provocare errori di calcolo», dice Patrick. L’altro grande banco di prova riguarda l’Iran: «Se Trump avvia l’abrogazione dell’accordo, potrebbe causare gravi divisioni con i maggiori alleati europei e semmai, paradossalmente, rafforzare Teheran». Generare, insomma, una politica estera “fuori controllo” e un’inedita fragilità nell’ordine mondiale.

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