Il presidente Donald Trump cambia la strategia americana sull’Iran. Come ha già detto altre volte, pensa che l’accordo sul nucleare raggiunto dal 5+1 nel luglio 2015 è «una delle peggiori e più sbilanciate transazioni che gli Stati Uniti abbiano mai intrapreso». Annuncia che se l'amministrazione americana non riesce a raggiungere un accordo con il Congresso e con gli alleati su una nuova intesa con l'Iran «l'accordo verrà cancellato». Ecco l’analisi di Alberto Negri
Con una sola mossa Trump ha deciso di mettere inutilmente nei guai gli Stati Uniti, l'Europa, l'Iran e il Medio Oriente. E se pensa di fare un favore a Israele, arcinemico di Teheran, probabilmente si sbaglia. La mancata certificazione dell'accordo del 2015 non significa che ne esce o verranno imposte sanzioni subito - la questione è rinviata al Congresso - ma è un altro segnale che la Casa Bianca, dopo l'erratica gestione della crisi nordcoreana, è in confusione, persino in contrasto con alcuni ministri oltre che con gli europei.
Intanto ha messo in allarme il mondo del business: dalle multinazionali del petrolio come Total, che hanno firmato contratti a Teheran, a quelle che si preparano a farlo come l'Eni. Anche l'americana Boeing e Airbus che hanno accordi per dozzine di miliardi di dollari. Non sono contenti nel mondo degli affari ma neppure a Teheran dove il presidente Hassan Rohani subisce gli strali dell'ala più oltranzista.
È sbagliato l'assunto stesso del suo piano anti-Iran: l'idea che nuove pressioni convinceranno Teheran a fare concessioni è un errore. Perché mai l’Iran dovrebbe cedere visto che sono 37 anni che gli Stati Uniti cercano di abbattere il regime? Prima con la guerra per procura scatenata da Saddam nel 1980, poi occupando l'Afghanistan nel 2001 e facendo crollare nel 2003 il regime iracheno nella speranza di chiudere la repubblica islamica in una morsa. Come è andata a finire è sotto gli occhi di tutti.
Come se non bastasse gli Usa nel 2011, mentre con francesi e inglesi creavano un disastro in Libia, hanno incoraggiato Turchia, Arabia Saudita e monarchie del Golfo a sostenere la guerriglia jihadista contro Assad, alleato storico di Teheran, di Mosca e degli Hezbollah. Anche lì sappiamo come è finita: se avessimo dato retta alla Clinton - e alla Turchia e ai sauditi, gente che oggi corre da Putin - il Califfo avrebbe fatto colazione sulle rovine di Damasco e dell'Iraq. E forse i jihadisti adesso sarebbero saldamente ai confini della Nato.
Stringendo l'accordo del 2015 con Teheran sul nucleare l'amministrazione Obama aveva corretto una serie di errori: respingere l'intesa, che gli iraniani stanno rispettando, non porta nessun vantaggio in termini di sicurezza agli Usa o a Israele. Il problema non è il nucleare di Teheran. E forse neppure l'Iran.
La questione è che la guerra di Siria ha sconvolto i dati geopolitici. L'Iran ha rafforzato l'asse con Baghdad, Damasco e Beirut ma soprattutto è cambiata la posizione della Turchia, storico ex bastione Nato: Erdogan, in fibrillazione per l'indipendenza dei curdi iracheni, è sceso a patti con Putin e Teheran, acquista (come i sauditi del resto) i missili S-400 russi e ha lanciato un'operazione congiunta con Mosca in Siria.
Erdogan prende a schiaffi gli americani e fa quello che gli pare: tra un po’ con la scusa della caccia ad Al Qaida si lancerà anche contro i curdi siriani alleati degli Usa nell'assedio di Raqqa all'Isis. La colpa maggiore di Teheran (e della Russia) è di avere sfruttato gli errori di calcolo di americani e alleati. L'Iran destabilizza? Non più di quanto facciano gli altri da sempre e non è certo un Paese amico del terrorismo jihadista. Anche questa è una colpa?
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