A Barcellona i movimenti indipendentisti invitano i quasi 29mila dipendenti pubblici della Generalitat alla disobbedienza civile e istruiscono i manifestanti alla resistenza passiva. Da Madrid fioccano i provvedimenti che destituiscono i funzionari catalani. Con l’azzeramento dei suoi vertici, ne sono stati rimossi oltre 150 tra collaboratori di Carles Puigdemont e dei suoi ministri, dirigenti, personale delle “ambasciate” all’estero. La scure, ieri mattina, è caduta anche sul capo dei Mossos d’Esquadra, Josep Lluis Trapero, che finisce sotto inchiesta per sedizione: paga così il “guanto di velluto” usato nei giorni del referendum. Destituito anche il direttore del reparto, Pere Soller.
La Repubblica catalana proclamata venerdì da Puigdemont è una repubblica del caos. Se le incognite maggiori sono le piazze e le strade nelle quali hanno già cominciato a confrontarsi secessionisti e unionisti, gli uffici delle pubbliche amministrazioni minacciano di sprofondare nella paralisi e nella confusione. Dalla quale non sembra salvarsi nemmeno la polizia. Un memo diffuso ai 17mila agenti dei Mossos d’Esquadra (come si chiama la polizia catalana) li richiama alla «neutralità» tra Barcellona e Madrid. Dopo la rimozione dei vertici, però, i Mossos ora devono prendere ordini direttamente dal Governo centrale. Chi non si adeguerà rischierà di finire come Trapero, processato per sedizione. Il ministero degli Interni spagnolo ha il potere di affiancare i Mossos con agenti della polizia nazionale, che ha già i suoi uomini in territorio catalano (con funzioni di antiterrorismo e controllo dell’immigrazione, principalmente). La legge spagnola prevede la pena fino a 30 anni di reclusione per atti di ribellione.
Il Governo di Puigdemont ha rifiutato di sciogliersi, ma Madrid ha potere di veto su tutte le sue decisioni, finché rimarrà in carica. Sulla carta, almeno. Perché poi bisognerà trovare il modo di far rispettare le decisioni. Scioperi e manifestazioni sono da mettere in conto già dalle prossime ore, in attesa che le forze dell’ordine eseguano il mandato d’arresto che la procura spagnola si prepara a spiccare contro Puigdemont.
L’economia della regione ribelle, che produce circa un quinto del Pil spagnolo, ne risentirà sempre di più: venerdì una filiale del colosso tedesco delle assicurazioni Allianz ha aggiunto il suo nome alla lista delle 1.600 società che hanno traslocato dalla Catalogna. «È un caos enorme e assolutamente incomprensibile», ha dichiarato Jordi Alberich, direttore generale del Cercle d’Economia, un’associazione imprenditoriale con sede a Barcellona. «La strategia - aggiunge - sembra quella di provocare la più grave crisi possibile in modo da costringere il mondo a intervenire. Ma io sono convinto che ci sia una netta maggioranza di persone che vuole una soluzione tranquilla».
A far conto su una maggioranza silenziosa contraria alla rottura totale è soprattutto il premier spagnolo Mariano Rajoy. I sondaggi di opinione mostrano regolarmente che oltre metà dei 5,3 milioni di elettori catalani la pensa così. Secondo un sondaggio eseguito dall’istituto Metroscopia e pubblicato ieri da El Pais, solo il 29% dei catalani sarebbe a favore della secessione, mentre il 46% si accontenterebbe di maggiore autonomia. Appena il 19% degli intervistati si dichiara poi esclusivamente catalano. Del resto al referendum sulla secessione - passato con il 90% dei voti - ha partecipato solo il 43% degli aventi diritto.
Rajoy si augura che i sondaggi abbiano ragione, perché se a Barcellona incombe il caos, vista da Madrid la situazione sembra altrettanto imprevedibile. Il premier ha indetto nuove elezioni in Catalogna per il 21 dicembre, sperando appunto che gli abitanti della regione puniscano i partiti indipendentisti per averli portati a questa situazione senza sbocco apparente. Ma è l’ennesima scommessa azzardata in questa vicenda.
© Riproduzione riservata