Non è l'islam che si sta radicalizzando, è il nichilismo che si sta islamizzando, dice Olivier Roy, esperto di geopolitica mediorientale, autore di Generazione Isis. In realtà non ci sono formule assolute per definire gli attentati terroristici ma storie individuali non sempre immediatamente comprensibili e che vengono strumentalizzate. Una cosa è certa: la fine dell'Isis come entità territoriale non è la fine del terrorismo, come fonte di ispirazione, né dell'ideologia jihadista, come la guerra in Afghanistan non fu la fine di Al Qaida che è ancor attiva in Siria, in Yemen e nel Nordafrica. A distanza di 16 anni dall'11 settembre 2001 colpisce le banalità diffuse dai cosiddetti esperti intervistati dalle tv: mai visto nessuno di questi signori sul campo in 30 anni di reportage di guerra.
Manca la comprensione profonda di fenomeni traumatici rappresentati da eventi come i conflitti mediorientali e l'influsso che hanno avuto sui musulmani nel mondo. L'evento più lacerante fu la sconfitta nel 1967 degli stati arabi nei confronti di Israele e la tragedia palestinese: la presa d'atto che nessuna delle nazioni arabe uscite dalle decolonizzazione era capace di vincere la guerra contro lo stato ebraico. Tra i musulmani, i sunniti, tre quarti su oltre 1,2 miliardi nel mondo, sono quelli che si sentono più defraudati dagli eventi. L'Iraq di Saddam Hussein e le monarchie del Golfo, appoggiate dall'Occidente, mossero guerra alla repubblica islamica sciita di Khomeini nell'80: otto anni di massacri con un milione di morti senza risultato.
Questa sconfitta fu in parte compensata dalla vittoria dei mujaheddin in Afghanistan contro l'Armata Rossa sovietica: è qui che nasce il mito jihadista, incoraggiato allora dall'Occidente per sconfiggere il comunismo.
Ma questa vittoria fu una sorta di inganno: l'Afghanistan venne abbandonato al suo destino e non c'era nessuna “premio” per la collaborazione dei musulmani alla caduta dell'Impero Rosso. È da questa frustrazione che nascono Al Qaida e il jihadismo anti-occidentale che esplode con l'11 settembre 2001, la guerra Usa ai talebani e poi e con l'invasione americana in Iraq del 2003. La minoranza sunnita irachena, sbalzata dal potere con la caduta di Saddam Hussein, alimenta la resistenza di Al Qaida contro gli americani e l'ascesa degli sciiti. Gli stessi alleati degli americani, le monarchie del Golfo e gli altri stati arabi, appoggiano i sunniti iracheni. Così come nel 2011 sostengono l'opposizione jihadista contro Bashar Assad, per poi piegare la testa di fronte all'intervento della Russia nel 2015 che mantiene al potere il regime di Damasco alleato di ferro dell'Iran sciita.
Tre sconfitte epocali dopo quella del 1967, l'Afghanistan nel 2001, l'Iraq nel 2003 e oggi la Siria. A queste si aggiunge la guerra in Yemen, con l'Arabia Saudita impantanata in un conflitto ai suoi confini con gli Houthi sciiti.
A che serve acquistare armi per miliardi dollari dagli Usa e dell'Occidente se poi i sunniti perdono tutte le guerre contro gli sciiti? È questo uno dei motivi, certo non l'unico, che apre il conflitto all'interno dello stesso modo sunnita.
Il vuoto lasciato dall'inefficacia degli stati arabi e musulmani, perennemente sconfitti, viene riempito dal jihadismo e dal terrorismo che rappresentano in maniera sanguinosa la frustrazione accumulata in decenni di fallimenti. Gli stati arabi, pur ricchi di petrolio, sono incapaci e guidati da leadership avide, l'Occidente è loro complice, della spartizione coloniale e delle sconfitte dei musulmani: questo è l'universo mentale dei jihadisti. Hanno molti nemici e fanno vittime innocenti, in gran parte ignare di questo mondo dei vinti.
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