Potestas abhorret a vacuo. Corretto, il vecchio adagio in origine riferito alla natura, si applica spesso perfettamente al potere: dove si crea vuoto qualcuno lo riempie, e quel qualcuno, oggi, è sicuramente Emmanuel Macron. Anche in campo internazionale.
La fase politica gli è particolarmente favorevole. Gli Usa di Trump si ritirano, come è avvenuto dall’accordo sul clima (con qualche ripensamento); oppure compiono passi che fanno terra bruciata intorno a loro, come nel caso dell’ambasciata di Gerusalemme. Angela Merkel è in difficoltà: non riesce a dar vita a un governo, e tanto meno a un’ampia strategia di politica estera che tra l’altro non sembra congeniale alla Germania. La Gran Bretagna, con Brexit, rinuncia al potere e all’influenza - notevole perché Londra è portatrice di una cultura diversa e complementare a quella continentale - sull’Unione europea e i suoi paesi membri e se ne allontana. Mosca non ha il soft power necessario per essere leader - anche se seduce molti populismi - e la Cina è ancora (per quanto tempo?) lontana.
Ambizioso, colto - a chi mai verrebbe in mente oggi di citare Hegel e la nottola di Minerva, per giunta ad Atene, di fronte al Partenone - e leader di un paese che alla sua sgualcita grandeur tiene ancora, Macron cerca di riempire tutti i vuoti. Eccolo in viaggio verso l’Africa francofona dove chiude - retoricamente, certo - la stagione neocolonialista, propone un nuovo approccio (con un occhio attento alle mosse degli Usa) a cominciare dalla Libia del petrolio e dei migranti-schiavi; e ne approfitta per strizzare l’occhio - una sua abitudine - ai concittadini. «Il francese sarà la prima lingua dell’Africa, forse del mondo», ha detto con il suo tono enfatico, e forse un po’ démodé, scatenando sui giornali inglesi una reazione troppo piccata per suscitare davvero, come vorrebbe, il senso del ridicolo. Sarà un caso, o il risultato di sortite come questa, se il consenso interno, crollato dopo le prime riforme interne, è tornato al 50%?
Nei giorni scorsi - dopo essersi assicurato in Qatar commesse militari da 12 miliardi - ha preso le distanze dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in visita a Parigi anche per perorare la causa di Gerusalemme capitale, e lo ha invitato a fare un gesto di pace. Ieri ha ripreso in mano il dossier del clima: il patron di una formidabile rete di 58 centrali nucleari si è presentato con un piano di investimenti da 25 miliardi nell’energia solare, che in 18 anni potrebbe sostituire la metà della produzione atomica; e questa, su un tema strategico come l’energia - dove è facile conciliare ambientalismo, geopolitica ed economia - non sarà l’unica iniziativa.
Per capire davvero dove vuole andare, bisognerà però guardarlo in azione in Europa, che non è né uno stato né l’anarchica arena internazionale, ma una complessa rete di governi e istituzioni. A settembre, Macron ha lanciato la sua sfida proponendo un’ampia riforma che ha raccolto consensi frammentari, su singoli temi. La domanda è ora se la sua nuova Francia avrà la capacità - che solo una cultura politica alta può donare - di attrarre i partner attorno al suo progetto. Macron, si può esserne certi, ci proverà.
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