BARCELLONA - La Catalogna ha scelto di insistere ancora nel processo di indipendenza dalla Spagna. Non sono stati realizzati exit-poll, troppo incerti i risultati e troppo calda a piazza nelle elezioni di ieri. L’unico sondaggio, diffuso dal quotidiano La Vanguardia, subito dopo la chiusura delle urne, descrive una Catalogna spaccata in due ma indica anche un vantaggio, seppur minimo, per i partiti che vogliono la secessione: avrebbero ottenuto il 46,5% dei consensi e, quello che più conta, tra i 67 e 71 seggi, cioè probabilmente la maggioranza di 68 seggi sui 135 totali del nuovo Parlamento di Barcellona. In queste elezioni, storiche e anomale, la partecipazione è stata altissima, superando l’82 per cento dei 5,5 milioni di catalani con diritto di voto.
Quello descritto dal sondaggio telefonico di Gad3 per La Vanguardia, è un risultato incerto, in bilico, che ridarebbe forza a Carles Puigdemont, l’ex governatore fuggito in Belgio, e a Oriol Junqueras, il leader della Sinistra repubblicana in carcere da due mesi con l’accusa di ribellione: Junts per Catalunya (tra i 28 e 29 seggi) e Sinistra repubblicana (34-36) con il sostegno della Cup (5-6), la sinistra estrema, potrebbero riproporre (almeno aritmeticamente) l’alleanza che ha governato negli ultimi due anni andando allo scontro frontale con Madrid. «Dimostreremo di nuovo la forza di un popolo indomabile», aveva dichiarato Puigdemont da Bruxelles questa mattina appellandosi ai suoi sostenitori. Per gli indipendentisti si tratterebbe di un successo insperato dopo che l’intervento del governo di Mariano Rajoy, a fine ottobre, aveva azzerato le istituzioni catalane, commissariando la Generalitat in forza dell’articolo 155 della Costituzione.
In svantaggio di pochissimo, al 45,5% dei consensi, il fronte unionista dovrebbe tuttavia ancora accettare l’opposizione con 55-62 seggi: lo stesso Rajoy con i Popolari otterrebbe appena 3-5 seggi e sarebbe costretto ai margini dagli alleati unionisti di Ciudadanos diventati il primo partito con 34-37 seggi. Bene i Socialisti che con 18-20 seggi potrebbero avere un ruolo non secondario se si aprirà una fase di riconciliazione della regione. In forte calo sulle elezioni del 2015 Catalunya en Comù-Podemos che proponendosi come elemento di mediazione avrebbe raccolto appena 7-8 seggi.
Anche nei risultati reali, dopo lo spoglio di oltre l'85% delle schede elettorali, il fronte indipendentista conferma la sua maggioranza assoluta di 70 seggi e gli unionisti di Ciudadans si confermano il primo partito con 36 seggi e oltre 950 mila voti. JuntsxCat avrebbe 34 seggi, l'Erc 32 e la Cup quattro seggi. I socialisti totalizzerebbero 17 seggi.
Ma la maggioranza in Parlamento sarà definita da qualche migliaio di voti e dall’assegnazione di una manciata di seggi. E inoltre, anche se i risultati anticipati stasera dal sondaggio del quotidiano catalano e dai primi seggi scrutinati fossero confermati in via definitiva, il fronte indipendentista farebbe molta fatica a governare: Puigdemont e Junqueras si sono candidati con due liste separate e hanno fatto campagna uno contro l’altro.
«Il fronte indipendentista si è sfaldato- dice Alberto Lopez Basaguren, professore di Diritto costituzionale all’Università dei Paesi baschi - perché non sapeva dove andare dopo il referendum sulla secessione del primo ottobre organizzato sfidando la legge spagnola e il governo di Madrid. Puigdemont mi sembra l’unico che continua a credere in questa illusione e non so quanto sia condivisa la sua insistenza dentro a Junts per Catalunya. Mentre la Sinistra repubblicana di Junqueras mi sembra orientata a cambiare strategia, facendo magari un passo indietro: cercando cioè di ritrovare consensi non sulla dichiarazione di indipendenza ma sul diritto a decidere: la richiesta di un referendum concordato e legale sarebbe certamente respinta con fermezza da Madrid ma potrebbe rimettere assieme molti catalani, anche moderati. La Sinistra repubblicana è sempre stata più realista».
Il processo verso l’indipendenza è stato sì bloccato da Madrid ma è stato soprattutto messo in discussione dall’Europa e dalle imprese catalane. Gli indipendentisti hanno sperato a lungo e invano di ottenere da Bruxelles se non un appoggio almeno una proposta di mediazione. E ancora più grave è stato il loro errore nel sottovalutare l’impatto economico dello scontro con Madrid e i timori dei grandi gruppi bancari e industriali: sono più di tremila le società che hanno deciso di trasferire la sede sociale in altre regioni a partire dal referendum di inizio ottobre. Mentre si registrano forti cali nell’attività turistica e negli investimenti.
«La illusione di una secessione pienamente legale e pacifica, pura espressione di democrazia e ampiamente accolta dalla comunità internazionale, è svanita e l’indipendentismo in Catalogna deve comunque confrontarsi con la prospettiva - conclude Basaguren - di una lunga marcia, dura e dolorosa, con tutta probabilità destinata al fallimento. Quanto deve impoverirsi la Catalogna e quanto deve lacerarsi la sua società perché i catalani si rendano conto che le pretese indipendentiste sono una strada senza uscita?».
Oriol Bartomeus, politologo e professore di Scienze politiche all’Università autonoma di Barcellona, cerca di andare oltre lo scontro e di analizzare senza facili generalizzazioni i due fronti. «Noi o loro. Unionisti o secessionisti. Due concezioni della Catalogna e della Spagna totalmente contrapposte, che si escludono che non ammettono mediazioni. Da anni la politica catalana si è ridotta a questo. Ma, a ben vedere, i blocchi - afferma Bartomeus - non sono così omogenei e solidi. C’è spazio per altro, la Catalogna deve andare oltre questa semplicistica contrapposizione».
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