Qualche giorno prima del suo insediamento, Donald Trump aveva liquidato in due parole la minaccia del leader nordcoreano Kim Jong-un di testare in tempi brevi un missile balistico intercontinentale: «Non accadrà» aveva scritto Trump in uno dei suoi tweet.
Ma nell'ultimo anno, la corsa di Pyongyang per sferrare un attacco nucleare contro l'America è stata inarrestabile: la Corea del Nord ha testato tre missili balistici intercontinentali e condotto un sesto esperimento atomico facendo esplodere quella potrebbe essere stata la sua prima bomba all'idrogeno. E non si fa che parlare una possibile controffensiva militare americana.
Poco prima di Natale, il Segretario americano alla Difesa James Mattis, ha parlato di «venti di guerra». Il generale McMaster, il più guerrafondaio fra i consiglieri alla sicurezza di Trump, ha dichiarato che sarebbe «intollerabile» che la Corea del Nord sferrasse un attacco nucleare contro gli Usa. Dopo che a novembre Pyongyang ha testato un missile con una gittata in grado di colpire qualsiasi punto degli Stati Uniti, le probabilità di una guerra «aumentano di giorno in giorno».
I Governi di tutto il mondo stanno cercando di capire se la retorica è pensata per sostenere gli sforzi diplomatici o se Trump crede davvero di poter dissuadere Kim dall'usare le armi nucleari e di impedirgli veramente di compiere l'irreparabile.
«Se fa sul serio, andremo in guerra» dice Michael Mullen, presidente del Comitato degli stati maggiori dei presidenti George W. Bush e Barack Obama. «Come sarebbe una guerra nucleare? In America non c'è stato un dibattito sull'argomento… io continuo a non credere che Kim Jong-un possa usare un'arma nucleare come ritorsione contro di noi.»
La retorica dell'Amministrazione Trump è stata al centro dell'incontro fra le due Coree di martedì, quando la Corea del Nord si è detta disposta a inviare una delegazione ai prossimi Giochi invernali di PyeongChang e la Corea del Sud ha dichiarato che potrebbe considerare una temporanea sospensione delle sanzioni contro la Corea del Nord. Le autorità di Seul ammettono di aver cercato il modo per allentare le tensioni militari, un'apertura che potrebbe creare qualche difficoltà a Washington, che sta cercando di fare più pressione su Pyongyang per il suo programma nucleare.
Mentre le autorità americane cercano di capire quanto sia concreto il pericolo di un attacco nucleare da parte di Kim, il Pentagono sta rivedendo i suoi piani. Da una parte, il Segretario alla Difesa Mattis ha dichiarato che gli Usa hanno delle opzioni che non prevederebbero necessariamente ritorsioni contro Seul – dichiarazione che è stata accolta con grande scetticismo – mentre il generale McMaster ha parlato della possibilità di una «guerra preventiva», mirata a eliminare i missili e i programmi nucleari nordcoreani.
L'estate scorsa, in un incontro ristretto degli ex-consiglieri alla sicurezza, il generale McMaster ha delineato le possibili opzioni che hanno portato alcuni partecipanti – non la maggioranza – a concludere che gli Usa sono più convinti di un intervento militare di quanto pensassero.
Gli strateghi militari hanno cominciato a usare espressioni come «calci negli stinchi» o «spaccargli il naso» per descrivere l'azione che secondo loro darebbe un messaggio forte a Kim, ma non così forte da far scattare una vera ritorsione.
Secondo Dennis Wilder, ex-analista CIA, ci sono molte opzioni che potrebbero essere interpretate come un calcio negli stinchi o un naso rotto: per esempio, colpire una base aerea o una struttura navale non associata al programma Icbm (Intercontinental Ballistic Missile), distruggere una delle case di Kim, colpire una parte fondamentale del suo programma missilistico o un missile durante un test.
«Probabilmente, un attacco isolato del genere verrebbe immediatamente seguito dall'annuncio del Presidente che si è trattato solo di un gesto intimidatorio e niente più» spiega Wilder.
Molti ex-responsabili della sicurezza americana, tuttavia, non credono che gli Usa potrebbero limitarsi a un'azione militare così circoscritta. Secondo James Stavridis, ex-comandante supremo delle forze alleate in Europa e attualmente preside della Fletcher School della Tufts University, ci sarebbe il 10% di probabilità di una guerra nucleare e «qualsiasi opzione militare provocherebbe diverse centinaia di migliaia di feriti, se non addirittura dai 2 ai 3 milioni».
Secondo Mullen, Trump e i suoi fanno male a pensare che Kim non risponderebbe a un attacco. «La nostra Intelligence non è così potente, allora come possiamo essere così sicuri che Kim non risponderebbe?» si domanda Mullen. «Se io fossi il Giappone o la Corea del Sud, mi chiederei: e noi? Gli Usa dovrebbero proteggerci.»
“Se vogliamo impedire alla Corea del Nord di avere un arsenale nucleare, sarà meglio prepararsi ad andare fino in fondo e l'unico modo è mandare delle truppe di terra”
William Fallon, ex comandante della flotta americana nel Pacifico
Dennis Blair, un ammiraglio in pensione che come comandante della flotta americana nel Pacifico vanta una certa esperienza di piani di guerra nella penisola coreana, pensa che gli Usa abbiano tre opzioni possibili per un intervento militare:
1) Un attacco in risposta a una provocazione, come un cyber-attacco o un missile che ha rischiato di colpire il Giappone, la Corea del Sud o l'isola di Guam. A suo parere, la risposta della Corea del Nord non sarebbe così grave se fosse Kim a provocare la reazione americana.
2) Blair, che è stato anche direttore dell'Intelligence americana, pensa che la seconda opzione comporti un notevole dispiegamento militare nella regione per spaventare Kim e fargli credere che l'attacco sarebbe imminente. Oltre a un aumento delle esercitazioni aeree sulla penisola, gli Usa hanno recentemente condotto delle esercitazioni con tre portaerei nell'Oceano Pacifico occidentale che qualcuno ha letto come un attacco.
Nel 1994, Blair comandava la portaerei Kitty Hawk quando gli fu ordinato di fare rotta verso la penisola coreana perché l'Amministrazione Clinton stava pensando di attaccare la Corea del Nord. «Siamo rimasti in allerta per tre mesi. Ogni giorno cambiavano i piani di guerra, ogni giorno dovevamo controllare i nostri obiettivi» racconta. «Ho sempre pensato che tutto questo avesse avuto un forte effetto sulla Corea del Nord.»
3) La terza opzione sarebbe un attacco preventivo, come colpire un missile lanciato per un test o un attacco più incisivo come quello ipotizzato dal generale McMaster. Secondo Blair, quest'ultima opzione sarebbe più rischiosa perché non è detto che riuscirebbero a trovare e distruggere completamente il loro arsenale nucleare. «Sono poche le probabilità che si possa distruggere tutto con un raid aereo di tre o cinque giorni. Ci vorrebbe un intrepido capo dell'Intelligence che si mettesse davanti al Presidente e gli dicesse: “noi sappiamo dove”.»
E localizzare l'arsenale nordcoreano sarebbe difficile anche perché la Corea del Nord ha nascosto molte armi sotto terra. «La Corea del Nord è stata uno dei più grandi importatori di attrezzature minerarie» spiega Wallace Gregson, un generale in pensione e uno dei massimi esperti d'Asia al Pentagono. «E la Corea del Nord ha fatto progressi costruendo missili mobili che sono più difficili da individuare.»
William Fallon, un altro ex-comandante della flotta americana nel Pacifico, si preoccupa di tutto questo parlare di un possibile intervento militare. «Gli attacchi aerei sono fondamentali [per un'operazione militare]… l'idea che si possa fare e che tutto il resto non conti… è stata dimostrata più e più volte» spiega. «Se vogliamo veramente impedire alla Corea del Nord di avere un arsenale nucleare, sarà meglio prepararsi ad andare fino in fondo e l'unico modo è mandare delle truppe di terra.»
Considerati i rischi, alcuni analisti non sono convinti che Trump finisca per lanciare il tipo di attacco che potrebbe scatenare un conflitto generalizzato. Il generale Joseph Dunford, capo degli Stati maggiori, ha dichiarato a luglio che una guerra nella penisola provocherebbe «una perdita di vite umane senza precedenti», ma ha anche detto che sarebbe «inimmaginabile» lasciare che la Corea del Nord possa colpire gli Usa con un attacco nucleare.
Il generale Dunford e il Segretario alla Difesa Mattis hanno avvertito la Corea del Nord che un attacco agli Stati Uniti scatenerebbe una reazione militare immediata, ma hanno anche sottolineato l'importanza della via diplomatica.
«Adesso fanno tanto gli spavaldi, ma quando i nordcoreani non si fermeranno, voglio vederli Dunford e Mattis nella loro sala riunioni a dire che vale la pena correre il rischio di usare armi nucleari, chimiche e biologiche» dice Michael Green, ex-consigliere per l'Asia del presidente George W. Bush.
La questione fondamentale per l'Amministrazione Trump è capire se Kim correrebbe il rischio di usare le sue armi nucleari sapendo che questo segnerebbe la fine di un regime e probabilmente della sua stessa vita. La Corea del Nord, tuttavia, è sempre stata un terreno difficilissimo per gli agenti segreti americani.
Jung Pak, un'esperta della Corea del Nord della Brookings Institution, che fino a poco tempo fa era un'analista della Cia in Corea del Nord, spiega che uno dei grossi scogli con Kim era il suo totale disinteresse a dialogare con gli altri leader stranieri. «Negli ultimi sei anni, per quel che ne sappiamo, non si è mai mosso dal suo Paese» racconta. «La Corea del Nord è stata una sorta di fortezza.»
Nel 2014, James Clapper, allora direttore dell'Intelligence americana, si recò a Pyongyang per negoziare il rilascio di due cittadini americani, ma non riuscì a incontrare il leader nordcoreano. Nel 2012, l'anno dopo che Kim salì al potere, Michael Morell, allora vice-direttore della Cia, intraprese una missione segreta in Corea del Nord. Morell voleva aprire un canale di intelligence che avrebbe fornito informazioni sul nuovo leader, ma non ci fu verso di incontrarlo di persona. La Cia si astenne da qualsiasi commento.
Le autorità americane vogliono anche capire qual è il vero obiettivo della corsa nucleare di Kim: per qualcuno è solo un deterrente per scongiurare un attacco americano, altri la vedono come uno strumento per unificare la penisola coreana.
Chris Hill, un diplomatico in pensione che ha partecipato ai colloqui a sei con la Corea del Nord ai tempi dell'Amministrazione Bush, spiega che sono decenni che la dinastia di Kim cerca di costruirsi un arsenale nucleare, ma che l'idea che la Corea del Nord lanci un attacco nucleare è «ridicola» perché sarebbe un «suicidio». «Qui non si tratta di ferire i sentimenti di Bush o di Trump, ma di un disegno a lungo termine per poter plasmare la penisola coreana come vogliono loro».
Secondo Jung Pak, il padre e il nonno di Kim hanno inseguito con tale tenacia l'ambizione nucleare che lui «ce l'ha nel suo DNA», ma aggiunge che Kim conosce la storia di Gheddafi, il leader libico ucciso dai ribelli diversi anni dopo aver rinunciato al suo programma nucleare. «Kim ha investito talmente tanto a livello personale, e a diversi livelli, che non può più tirarsi indietro».
Richard Fontaine, presidente del Center for a New American Security, sperava che le dichiarazioni degli Usa fossero semplicemente una forma retorica di “diplomazia delle cannoniere”. «Se mi sbaglio e loro intendono veramente tutte quelle cose quando dicono che Kim non è razionale o che con lui non c'è potere di dissuasione che tenga, allora, arriveremo sicuramente alla guerra perché non penso che la Corea del Nord sia disposta a rinunciare al suo programma nucleare.»
Tim Keating, un altro ex-capo della flotta americana nel Pacifico, spiega che il Segretario alla Difesa Mattis e il Segretario di Stato Rex Tillerson stavano «facendo un grandissimo lavoro per tamponare la retorica militarista adottata da certi funzionari». «Io non avrei mai detto quello che ha detto McMaster» spiega Keating. «Mi auguro che prevalga la lucidità e che venga percorsa la strada della diplomazia e non quella militare».
Se da una parte c'è chi spera che il Segretario alla Difesa Mattis possa scongiurare un conflitto catastrofico, dall'altra lo stesso Mattis dà da pensare. Dopo aver allertato le truppe a dicembre parlando di «venti di guerra», li ha esortati a leggersi This Kind of War, un libro che racconta come gli americani fossero impreparati per la Guerra di Corea, nel 1950. Ma dopo aver detto che c'è ancora spazio per la via diplomatica, ha concluso dicendo: «C'è poco da essere ottimisti.»
(Traduzione di Francesca Novajra)
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