È cominciato tutto da qui, il 17 dicembre 2011. Il 26enne Mohamed Bouazizi, venditore ambulante, si vede sequestrare dai poliziotti carretto e bilancia. Esasperato, si dà fuoco per protesta davanti al governatorato di Sidi Bouzid. La gente si riversa in strada a dimostrare. Le proteste dilagano in molte città, la collera si gonfia, e la marea umana travolge tutto. Il presidente Zine Ben Ali, al potere da 21 anni, prima cerca di stroncare le rivolte, poi vacilla, infine il 14 gennaio si dà alla fuga.
La rivolta dei Gelsomini aveva trionfato, ispirando altre popolazioni a ribellarsi contro i dittatori. Pochi giorni dopo toccò all’Egitto, poi alla Libia, fino allo Yemen e la Siria.
Sette anni dopo la Tunisia, il laboratorio delle primavere arabe, rivive imponenti manifestazioni contro il carovita e contro la marginalizzazione dei giovani. Le proteste sono subito degenerate nella violenza. Per il secondo giorno gruppi di ragazzi sono scesi in strada lanciando pietre contro la polizia, dando alle fiamme cassonetti, penumatici, perfino caserme della polizia. Finora si conta una vittima. Pare un film già visto, anche se l’epilogo è imprevedibile.
Tunisia, il Paese modello delle primavere arabe
Se c’era un Paese assunto a modello dal mondo occidentale come un esperimento riuscito - il solo travolto dalla primavera araba ad aver realizzato una transizione democratica credibile e trasparente tanto da meritarsi nel 2014 la menzione di “Paese dell’anno” dall’Economist - questa era proprio la piccola Tunisia.
Ed ecco che, come allora, le fiamme delle proteste sono nuovamente divampate in tutto il Paese. Da Beja a Testour, passando per Sfax, Meknassi, Sidi Bouzid, Ben Arous, Kebili, Nefza, dove è stata data alle fiamme la caserma di polizia e saccheggiato il deposito comunale. Incidenti anche a Sousse, dove è stata data alle fiamme la caserma di polizia di Bouhsina, e nei sobborghi della capitale Tunisi.
Le dolorose riforme strutturali e il prestito dell’Fmi
Il cammino verso la democrazia è un percorso tortuoso, a volte insidioso, che richiede pazienza e profonde trasformazioni sociali. Le autorità tunisine hanno compiuto dei passi in avanti . Ma è pur vero che i vari governi di coalizione che si sono succeduti nel tempo, un esempio che faceva ben sperare, hanno fatto davvero poco per rilanciare l’economia. Ora i nodi sono venuti al pettine.
Per cercare di stimolare l’economia, e portare avanti le riforme strutturali richieste dal Fondo monetario internazionale, il Governo tunisino ha approvato una legge finanziaria per il 2018, entrata in vigore in questi giorni, che prevede tagli dei sussidi energetici (una zavorra sui conti del Paese), con conseguenti aumenti di prezzo per il carburante in un Paese dove i mezzi pubblici funzionano male e a singhiozzo.
Una serie di rincari ha investito anche le assicurazioni, i servizi in generale e ha coinvolto anche l’Iva con una nuova maggiorazione dell’uno per cento. Manovre estremamente impopolari che hanno contribuito a far esplodere la rabbia dei giovani, giù esasperati per la marginalizzazione e la disoccupazione.
È il prezzo da pagare alle riforme chieste dal Fondo monetario internazionale, che meno di un mese fa aveva ribadito come la Tunisia si fosse impegnata a «un’azione decisiva» per riformare la sua economia. Un passo necessario per sbloccare la seconda tranche del prestito, approvato nel 2016 e distribuito nell’arco di quattro anni per un valore complessivo di 2,8 miliardi di dollari.
Proprio le mancate riforme del Governo, tra cui il taglio di 10mila impiegati pubblici – e la riforma del sistema pensionistico (il cui deficit in due anni è aumentato del 65% a 440 milioni di dollari), avevano congelato il prestito. Il Governo confidava per il 2017 in un irrealistico aumento del Pil superiore al 4 per cento. In realtà se sarà raggiunto il 2% - una crescita peraltro insufficiente per assorbire la nuova forza lavoro – sarà già tanto. L’innalzamento dell’età pensionabile dai 60 ai 62 anni, varato dal Governo, ha avuto un impatto irrisorio sui conti pubblici.
I dissidi tra i Partiti
E ora i problemi economici hanno riacceso le rivalità – in verità solo apparentemente sopite - tra i diversi partiti politici che in questi giorni si rimpallano le responsabilità per ciò che è avvenuto. Il governo si è schierato contro le manifestazioni. Il premier Youssef Chahed ha definito gli eventi opera di «individui che saccheggiano, rubano, sottraggono beni altrui e aggrediscono i tunisini» precisando che «il diritto di manifestare è garantito dalla legge, ma il governo è disponibile ad ascoltare solo le rivendicazioni delle persone che protestano pacificamente».
Così come per Nidaa tunis, il partito di maggioranza relativa, Il partito islamico Ennahdha (seconda forza del Paese e parte della maggioranza parlamentare), pur chiedendo un maggiore sostegno alle classi meno abbienti, ha condannato i saccheggi e il sabotaggio delle istituzioni statali accusando «alcuni partiti politici anarchici di sinistra» di approfittare delle rivendicazioni dei manifestanti per incitare il caos e atti di vandalismo».
Il leader dell’opposizione Hamma Hammami, del raggruppamento di sinistra Fronte Popolare, ha invece accusato la coalizione di governo di essere responsabile delle violenze annunciando una manifestazione per chiedere il ritiro della Legge finanziaria 2018 per il 14 gennaio, data simbolo della rivoluzione dei gelsomini.
Si sono dunque riaperte le ostilità politiche. Ma assistere senza far nulla a una pericolosa deriva in Tunisia significa abbandonare a sé stesso il Paese arabo più “laico” e democratico del Nord Africa. Il male peggiore sarebbe un vuoto di potere. Un habitat congeniale per i movimenti estremisti islamici. Agli occhi dell’Isis questo Paese dotato di un dinamico tessuto imprenditoriale (dove la presenza italiana è molto radicata), un settore privato in espansione, e un popolo più istruito rispetto ai paesi vicini, è sempre stato il male da estirpare.
La marginalizzazione dei giovani aveva trasformato la Tunisia in una fucina di aspiranti jihadisti con 4mila giovani partiti alla volta di Siria e Iraq per unirsi all’ Isis. Nessun altro Paese aveva fatto di più. Lo Stato islamico ha perso. La priorità oggi è fare in modo che a perdere non sia anche la Tunisia.
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