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Il Nafta, l’accordo di libero scambio nordamericano che coinvolgendo un Pil da oltre 20.000 miliardi di dollari vanta d’aver creato la più grande area di free trade al mondo, è avviato verso imminenti disdette. Questo, almeno, teme il Canada, uno dei tre paesi membri assieme a Messico e Stati Uniti. Lo “strappo”, forse fin dalle prossime settimane, sarebbe nell’agenda dell’amministrazione statunitense di Donald Trump. Ed è considerato credibile anche fuori da Ottawa: i mercati hanno ieri reagito alle voci mettendo sotto pressione borse e valute.
Funzionari del governo del Canada e top executive del Paese hanno lasciato trapelare che, di fronte all’impasse d’un negoziato voluto da Trump per correggere il trattato, Washington appare pronta a spedire il previsto preavviso di sei mesi per uscire dal North America Free Trade Agreement. Le chance sarebbero considerate superiori al 50 per cento. Il prossimo - sesto e penultimo - appuntamento tra le delegazioni è previsto tra il 23 e il 26 gennaio a Montreal e un ulteriore summit avverrà a febbraio. Ma, con colloqui che si trascinano senza svolte da agosto, potrebbe non bastare: divergenze e sfiducia reciproca appaiono profondi.
La situazione resta fluida: neppure una disdetta, in realtà, sarebbe un passo definitivo, perché può essere ritirata entro il semestre. L’escalation della tensione potrebbe dunque essere una manovra tattica. Un’arma che l’amministrazione Trump sfodera per alzare il tiro in nome degli interessi domestici. E che i difensori del Nafta sperano invece si ritorca contro la Casa Bianca, spingendo business e politici preoccupati a intervenire. Le opzioni più probabili, in caso di disdetta, appaiono tre: un accordo zoppicante mantenuto in vita dal Congresso, che potrebbe rivendicare l’autorità commerciale; una fine dell’intesa con ritorno a più modesti patti bilaterali; negoziati interamente nuovi.
La sola prospettiva di un trauma, tuttavia, minaccia danni, politici e economici, se non spettri di recessioni. «C’è tremenda incertezza all’orizzonte», ha detto Mike Archibald di AGF Investments. La US Chamber of Commerce, principale associazione imprenditoriale Usa, è già scesa in campo dichiarando che una cancellazione degli accordi commerciali azzererebbe ogni guadagno promesso da Trump con riforma delle tasse e deregulation. A rapida conferma, i titoli delle aziende più avvantaggiate dal superamento dei dazi scattato nel 1994 con il varo del Nafta, quali le case automobilistiche, hanno sofferto. Veicoli prodotti in Messico da Gm potrebbero essere colpiti da tariffe del 25 per cento.
Il coro di allarmi si è progressivamente intensificato. L’amministratore delegato di Royal Bank of Canada, Dave McKay, ha ammesso che le probabilità d’una fine del Nafta sono in aumento. Esponenti vicini al governo canadese hanno aggiunto che sono ormai in corso «preparativi per le risposte a un annuncio di fuoriuscita» statunitense. E fonti di Washington hanno citato Trump dire ai suoi consiglieri che «vuole esserne fuori». I punti di frizione irrisolti tra i tre partner, ad oggi, rimangono numerosi. Da regole d’origine dei prodotti per fissare nuovi e più sostanziosi minimi di «contenuto statunitense», in particolare nell’auto. A clausole per dichiarare automaticamente decaduto il Nafta se non viene rinegoziato ogni cinque anni. Fino all’eliminazione di uno speciale meccanismo sovranazionale per la risoluzione di dispute senza rappresaglie. Lo scontro si è aggravato negli ultimi giorni quando il Canada ha presentato ricorso alla Wto contro l’uso da parte di Washington di sanzioni anti-dumping e anti-sussidi, anzitutto nel legname. Il rappresentante commerciale della Casa Bianca Robert Lighthizer ha definito il gesto «un attacco».
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