Donald Trump non arretra di un passo nella sfida lanciata al resto del mondo a colpi di dazi e minacce. Anzi, alla Ue che prepara ritorsioni sulle barriere su acciaio e alluminio, Trump ieri ha risposto con una salva di tweet, da par suo: «Se la Ue vuole aumentare le già massicce tariffe e barriere commerciali contro le imprese americane, noi applicheremo una tassa sulle automobili che si riversano liberamente negli Usa». E poi: gli europei «rendono impossibile per le nostre automobili, e non solo, di essere vendute lì. Un grande squilibrio commerciale!». E ancora: «Gli Stati Uniti hanno 800 miliardi di dollari l’anno di deficit commerciale a causa dei nostri stupidi accordi e delle nostre stupide politiche. I nostri posti di lavoro e la nostra ricchezza vanno a finire in Paesi che si sono approfittati di noi per anni. Loro ridono di quanto sciocchi sono stati i nostri leader. Mai più!».
Dimenticati i toni soft di Davos, il presidente riveste i panni da mercantilista, in un attacco a tutto campo che rischia di innescare la guerra commerciale globale temuta da Fmi e Wto.
La scintilla
A scatenare l’escalation è la difesa della Rust Belt di acciaierie e fonderie per l’alluminio: non è la moribonda industria del carbone, ma il suo lungo e inevitabile declino getta una luce spietata sul suo reale peso. Per ogni suo addetto, ce ne sono 57 che lavorano in settori che usano acciaio e alluminio e potrebbero essere danneggiati da incrementi dei prezzi ed escalation di protezionismo. Nel caso dell’acciaio, anzi, questa proporzione sale a uno contro ottanta. Il contributo complessivo di questi comparti all’economia Usa è pari a un quindicesimo di quello dei settori “consumatori” - auto, aerospazio, costruzioni, macchinari, bevande.
La maggior parte degli esperti concorda che neppure i generalizzati dazi annunciati dalla Casa Bianca - 25% sull’acciaio e 10% sull’alluminio - possano risollevarne le sorti. L’import oggi conta per circa un terzo dei 100 milioni di tonnellate di acciaio e per il 90% dei 5,5 milioni di tonnellate di alluminio utilizzate ogni anno negli Usa. La produzione domestica di alluminio è in calo da decenni, erosa dai costi dell’elettricità. L’anno scorso, le fonderie statunitensi, che oggi impiegano meno di 30mila dipendenti, hanno messo sul mercato 741mila tonnellate di alluminio; altre 6 milioni di tonnellate (16 miliardi di dollari) sono state importate in un settore che vale nell’insieme tra i 75 miliardi e i 186 miliardi, anche sommando l’intero indotto - meno dell’1% del Pil. Nell’acciaio, l’import è stato di 34 milioni di tonnellate, pari a 29 miliardi. Dal 1962 al 2005 le imprese domestiche hanno perso tre quarti degli occupati e un ulteriore 10% negli ultimi dieci anni - sono rimasti in tutto 140mila addetti - ma anzitutto per le rivoluzioni tecnologiche che hanno quintuplicato l’output per lavoratore.
Due milioni di americani lavorano al contrario in attività che fanno uso intensivo di acciaio e 6,5 milioni in aziende che comunque vi ricorrono.
Effetto boomerang
I potenziali danni scatenati da guerre commerciali appaiono dunque ben più significativi dei vantaggi. Una conclusione che sta spingendo lo stesso capo-consigliere di Trump, Gary Cohn, a considerare le dimissioni dopo essersi opposto ai dazi. Le ripercussioni sono dirette, anche se acciaio e alluminio sono una voce relativamente piccola nei 2.400 miliardi di importazioni annue complessive americane. Ma ancor più indirette: spirali di ritorsioni che possono contagiare altri settori, fino all’agricoltura. L’industria aerospaziale e della difesa vanta un surplus commerciale di 86 miliardi, che potrebbe essere eroso da dazi. I macchinari potrebbero essere colpiti da nuovi costi: l’acciaio rappresenta il 65% e l’alluminio un altro 10% delle spese in materie prime di gruppi come Caterpillar.
Protezioni e aumenti dei prezzi possono certo far riaprire i battenti a qualche impianto o fonderia di produttori quali Us Steel e Ak Steel Nucor, la controllata Usa di ArcelorMittal, Aloca e Century Aluminum. Ma con effetti marginali su forniture e occupazione rispetto al declino del 35% nei posti di lavoro nell’acciaio dal Duemila e del 58% nell’alluminio dal 2013, denunciato dallo stesso dipartimento del Commercio. Non a caso l’associazione imprenditoriale Business Roundtable ha denunciato che i dazi «danneggeranno l’intera economia americana». Simile allarme ha lanciato la Motor Equipment Manufacturers Association, nella componentistica auto.
La storia, oltretutto, offre a sua volta un monito: nel 2002, “sanzioni” del 30% mirate sull’acciaio, sotto George W. Bush, non fermarono la caduta della produzione e stando a studi citati dalla Association of Global Automakers costarono la perdita di circa 200mila posti di lavoro, salvandone diecimila. Questo sì un pesante dazio da pagare a populismo e protezionismo.
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