È la prima riunione Fed del nuovo presidente, Jerome Powell; e il suo esordio potrebbe coincidere con un rialzo dei tassi di interesse. Sarà davvero un appuntamento importante, quello di marzo, per la politica monetaria Usa. Tra conferenza stampa - anch’essa un debutto - e proiezioni macroeconomiche, permetterà di aver un primo assaggio della nuova leadership e di come intende affrontare il nuovo clima politico, segnato da tagli delle tasse e iniziative protezionistiche.
I rapporti tra Powell e Trump
Saranno quindi molte le domande, in conferenza stampa, finalizzate a sondare cosa pensa il nuovo presidente della Fed delle iniziative dell’Amministrazione Usa e del presidente Donald Trump, che lo ha nominato. Saranno queste a segnare la seduta, e a dare ai mercati i segnali più interessanti. Più difficile invece sarà notare una vera discontinuità nella politica monetaria in senso stretto: a parte l’indesiderabilità di “salti” imprevisti, al nuovo presidente - che oltretutto è un avvocato, non un economista - occorrerà tempo per lasciare il segno in un comitato al quale in passato ha partecipato, a quanto sembra, mantenendo un profilo basso.
In vista una stretta più rapida?
La stretta, e quindi la normalizzazione della politica monetaria, è quindi destinata a proseguire, e con un ritmo piuttosto graduale. Il rialzo dei Fed funds rate, dall’1,25-1,5% all’1,5-1,75% è considerato praticamente sicuro. L’unica incertezza, sui mercati, è se Powell intravveda solo tre rialzi nel 2018 o preferisca personalmente puntare su quattro. Sotto questo punto di vista importanti saranno anche le eventuali variazioni ai “dots”, le previsioni che ciascun governatore presenta sull’andamento dei tassi di interesse ufficiali.
A livelli quasi normali
Un’accelerazione anche moderata del ritmo della stretta - che potrebbe però avere come effetto un rafforzamento del dollaro non gradito all’Amministrazione Usa - significherebbe chiudere l’anno con tassi al 2,25-2,50% con una politica monetaria quasi normalizzata: nel tempo, i governatori hanno progressivamente abbassato le proiezioni per il “tasso di lungo termine”, in sostanza l’obiettivo, fino al 2,75%.
L’effetto di tasse e dazi
Non si può dire però che, in base alla stessa logica della Fed, la situazione attuale giustifichi del tutto una stretta così rapida. Anche se molto dipenderà dalle nuove proiezioni sulla crescita, che potrebbero essere riviste al rialzo (e lo stesso potrebbe capitare anche ai tassi di lungo termine) per tener conto delle iniziative fiscali di Trump. Ovviamente nel caso in cui si sottovalutino le dimensioni o la velocità degli effetti frenanti dei dazi che l’Amministrazione sta introducendo.
Condizioni finanziarie più strette
Le condizioni finanziarie degli Stati Uniti si stanno del resto già muovendo velocemente: i mercati stanno “stringendo”, precedendo la banca centrale. I tassi reali, per esempio, sono saliti rapidamente, rispetto a inizio dicembre, anche se sulle scadenze lunghissime non hanno ancora raggiunto i livelli del 2014 e 2015. I rendimenti scontano le aspettative sui tassi: il rialzo di marzo è diventato sempre più probabile, mentre è apparsa l’ipotesi del quarto rialzo nel 2018.
Bilancio in lentissima flessione
Le dimensioni del bilancio - la cui riduzione può incidere ben più della stretta sui rendimenti, soprattutto a più lunga scadenza - calano in ogni caso a un ritmo molto lento, quasi impercettibile. Difficilmente i “mancati acquisti” hanno inciso sull’andamento dei tassi di mercati.
Il dollaro interrompe il deprezzamento
Il cambio effettivo del dollaro, malgrado il tentativo di spingere in basso il dollaro - che ha scatenato le proteste, per esempio, del presidente della Bce Mario Draghi - resta al di sopra della media post-recessione (che però risente evidentemente di una prima fase decisamente “sotto tono”) e soprattutto sembra aver interrotto già a fine gennaio, paradossalmente in coincidenza con le dirompenti dichiarazioni sul cambio di Trump a Davos, un trend discendente che aveva iniziato a prendere forza poco meno di un anno fa.
Inflazione a livelli ancora bassi
L’inflazione - misurata, come preferisce fare la Fed, con l’indice core dei consumi personali - è ancora all’1,5%, un livello che corrisponde alla media post-crisi e non dà segnali di voler riavvicinarsi al 2%. Negli Usa l’inflazione core sembra precedere, e quindi aprire la strada a quella complessiva (una relazione di lungo periodo in cui la Fed mostra di credere ancora): il fatto che sia tornata a livelli più bassi di quella totale non è del tutto rassicurante.
La curva di Phillips resta stabile
Nell’era Yellen, la Fed mostrava una forte fiducia nella relazione di Phillips che, nella sua versione più semplice - persino semplicistica - segnala che una bassa disoccupazione si traduce in un’alta inflazione. Oggi il legame tra il mercato del lavoro e i prezzi sembra essersi interrotto, se non invertito: nel periodo post-crisi a una bassa disoccupazione sembra anzi accompagnarsi una bassa inflazione, e non è chiaro se gli ultimi dati sui prezzi preludano a uno “spostamento della curva”, a un cambiamento quindi dei parametri della relazione (cosa che accade in modo relativamente frequente) oppure è soltanto una alterazione temporanea.
Retribuzioni troppo lente
Analisti e investitori, per aver lumi sul futuro dei prezzi, guardano con una certa attenzione all’andamento dei salari. In astratto, con una disoccupazione al 4,1% - inferiore al livello neutrale individuato dalla Fed nel 4,6% - dovrebbero manifestarsi forti pressioni al rialzo delle retribuzioni. Sul mercato del lavoro sono però presenti alcune anomalie che potrebbero frenare questa tendenza: per esempio la presenza, anche se in misura inferiore rispetto al passato, di lavoratori part-time che preferirebbero il tempo pieno; oppure il disallineamento tra competenze richieste e competenze offerte.
Una Fed ancora prudente
Nella logica della Fed, che non vuole giungere alla conclusione - probabilmente giusta ma politicamente dirompente- che l’inflazione si è ormai stabilizzata a livelli più bassi rispetto al passato e occorre ormai abbassare l’obiettivo (oggi al 2%), tutto questo dovrebbe ispirare una grande prudenza.
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