Alla fine, Mark Zuckerberg sbarcherà davvero al Congresso di Washington. Ma in una veste un po' diversa da quella che si prospettava negli anni d'oro della sua popolarità, quando l'opinione pubblica lo accreditava come un possibile outsider nella corsa alla Casa Bianca. Il fondatore di Facebook, per ora, si limiterà a testimoniare di fronte a due commissioni del Senato americano sulle sue responsabilità nel cosiddetto datagate, lo scandalo che ha travolto il social per la cessione di dati all'azienda di marketing politico Cambridge Analytica. L'udienza di «Zuck» arriva in un momento di iper-esposizione per il 33enne, ma il pressing non è solo mediatico. Dopo anni di tentativi, gli organismi internazionali stanno cercando di fissare qualche paletto legislativo attorno a una piattaforma che era sempre sfuggita agli inquadramenti aziendali e soprattutto giuridici: cosa fa Facebook? E come si classifica?
Il social nato per «connetterne le persone», e profilarne i dati, deve misurarsi con le strette in arrivo sia dal resto del mondo che dagli stessi States. Nel Vecchio continente, la Commissione europea pianifica un giro di vito sulla disinformazione online e attende a maggio l’applicazione della Gdpr, un regolamento sulla protezione dei dati che va a urtare molti degli ingranaggi portanti di Facebook. Negli Stati Uniti non si è mai arrivati a una legislazione con la stessa impalcatura di quella europea, ma Facebo0k potrebbe andare a sbattere su diverse leggi e sentenze mirate indirettamente (e a volte direttamente) su un colosso da 2 miliardi di utenti. Un'inchiesta della testata statunitense The Atlantic ne ha elencati alcuni. Vediamoli.
1) Maxi-multe in arrivo dall’antitrust
Fino a prova contraria, Facebook dichiara di aver subìto una fuga di dati in favore della società Cambridge Analytica. Vero o falso che sia, negli Stati Uniti la perdita di informazioni sui propri clienti non configura un reato, almeno per il soggetto penalizzato dalla violazione di dati (in questo caso, Facebook). La Federal trade commission, l’antitrust americana, si limita a dare consigli su come «proteggere il business» e suggerisce di verificare come tutelarsi dal punto di vista legale, adeguandosi alle norme dei singoli stati. Ma il problema è un altro. Nel 2011, Facebook aveva siglato un accordo (settlement) con la Ftc per aver «raggirato i consumatori» secondo otto contestazioni diverse, dalla condivisione di dati con agenzie pubblicitarie all’aver fornito a terze parti «informazioni non necessarie». L'accordo della Ftc prevedeva una multa di 16mila dollari al giorno nel caso di nuove violazioni in materia. Considerando il volume di dati «non necessari» finiti nei server di Cambridge Analytica, i vertici Ftc sono arrivati a stimare sanzioni fino a 1 miliardo di dollari per il social di Zuckerberg. Noccioline rispetto al giro d'affari del colosso californiano, ma comunque quanto basta a erodere circa un decimo dei ricavi di un trimestre (e a far venire qualche mal di pancia in più agli azionisti).
2) Filtrare i contenuti «politici»
Facebook ha acquisito un ruolo di primissimo piano nelle ultime elezioni presidenziali. E non proprio in maniera positiva, visto che l’accusa più frequente è di aver fatto da vetrina - gratuita? - a fake news in arrivo dalla Russia e «troll» contro la candidata Hillary Clinton. Il social si era sempre difeso classificandosi come un mediatore puro, senza influenza sui contenuti diffusi al suo interno. Uno smarcamento messo in crisi dal caso di Cambridge Analytica, visto che l’utilizzo dei suoi utenti come una leva per la campagna elettorale di Trump ha costretto l’azienda a una presa di responsabilità anche nel merito di quanto viene pubblicato e cliccato ogni secondo.
Facebook ha preannunciato svolte sulla trasparenza dei messaggi politici, magari obbligando gli inserzionisti a requisiti minimi come un’email autentica e un via libera governativo. Ma c’è chi vorrebbe il salto di qualità, facendo passare i messaggi di carattere politico sotto ai filtri della Federal election commission (la commissione che presiede le attività elettorali). Oggi le «comunicazioni elettorali» sono catalogate secondo criteri abbastanza generici, come il riferimento esplicito a un candidato politico o la diffusione entro i 60 giorni dal voto. L’idea è di allargare il perimetro della definizione per tenere sotto controllo gli annunci pubblicati online, utilizzando parametri più adatti all’online (ad esempio, scrivono i media americani, un’analisi della fonte che permetta di capire se il messaggio è formulato da un chatbot).
3) Pubblicità «contestabili» e comitati etici
Ben prima di Cambridge Analytica, il social network guidato dal liberal (o quasi...) Zuckerberg non si era fatto scrupoli nell’accogliere inserzionisti mossi da precisi intenti discriminatori. Facebook aveva accettato, per fare un esempio, di pubblicare annunci calibrati solo per uomini bianchi o riservati agli utenti di gruppi antisemiti. Lo scudo istituzionale citato da Zuckeberg è sempre stata la sezione 230 del Communications Decency Act, una legge che sancisce l’estraneità delle holding digitali dai contenuti pubblicati da inserzionisti. Il Decency Act risale al 1996 e si rivolgeva ai primordi della pornografia online. Più di due decenni dopo, sta crescendo la spinta per negare la «immunità» ai colossi tech rispetto a quanto hanno veicolato e monetizzato dai propri server. Per sfortuna di Zuckerberg c’è anche un precedente ravvicinato nel tempo.
La Camera bassa (House of Representatives) ha approvato solo a febbraio un emendamento al Decency Act che consente di perseguire i portali online che favoriscono la prostituzione. Non sarebbe così impensabile un’ulteriore modifica a tutela delle minoranze, un tasto sempre delicatissimo nel dibattito pubblico americano. Il «nuovo inizio» di Facebook potrebbe passare anche per una rivoluzione morale dall’interno. Il concetto è meno astratto di quanto sembra, perché l’ipotesi è di istituire un comitato etico che vigili sia sui contenuti veicolati che sulla condivisione di dati con enti giudicati inadatti, come Cambridge Analytica. Gli ethics boards sono già ampiamente diffusi, dalle università alle società di consulenza. Facebook potrebbe capire se gli conviene crearsene uno, prima che ci pensino le leggi esterne all’universo di Zuck.
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