Dove vuole arrivare Viktor Orban? Tutto sembra girare a favore del premier ungherese che regna a Budapest da otto anni e che nelle elezioni di domani conquisterà il suo terzo mandato consecutivo: gli ultimi sondaggi danno il suo partito, il Fidesz, vicino al 50%, resta solo da capire quanto ampia sarà la maggioranza che avrà nel nuovo Parlamento. L’unica forza in grado di dargli fastidio è il movimento razzista di estrema destra Jobbik. Mentre a sinistra non riescono a mettersi d’accordo per contare qualcosa.
È il momento di Orban, lui fiuta il vento politico e cerca di sfruttarlo fino in fondo. Ha conquistato l’amicizia della Russia di Vladimir Putin; ha un rapporto diretto, fatto anche di affinità caratteriale, con Donald Trump. È il leader indiscusso del gruppo di Visegrad, la fronda euroscettica dei Paesi dell’Europa centro-orientale contro Bruxelles. Trova estimatori non solo in Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, ma anche in Italia, in Francia, nei partiti di destra del Nord. In economia, a modo suo, ha vinto la scommessa, risollevando un Paese che rischiava la bancarotta. Continua a muoversi dentro all’Unione europea con destrezza, guardando soprattutto ai fondi comunitari indispensabili al suo Paese, con qualche preoccupazione per i negoziati sul nuovo budget Ue che definirà la distribuzione delle risorse a partire dal 2021. I richiami della Commissione europea non lo smuovono: sui migranti, dopo aver eretto un muro al confine meridionale, non smette di attaccare Bruxelles.
«È strano a dirsi ma oggi i rischi maggiori per l’Ungheria vengono dalle capitali occidentali», ripete in una campagna elettorale intrisa di populismo e paura: «I migranti distruggeranno la nostra cultura, le nostre radici religiose», «l’Unione europea vuole azzerare la nostra identità», dice additando il «grande nemico» del momento, il finanziere miliardario George Soros, il simbolo dei poteri forti internazionali che «vogliono riempire la nostra terra di migranti» e «vogliono sfruttare la nostra patria». Non arriva a nominare la razza e non attacca gli ebrei direttamente ma ci va molto vicino: «Orban usa parole pesantissime, le sue leggi contro Soros e le organizzazioni umanitarie sono un precedente grave che potrebbe contagiare altri Paesi, dentro l’Unione», afferma Daniel Makonnen, portavoce dell’Open Society, la fondazione di Soros a Budapest.
Orban nasce a Szekesfehervar, la città dei re, nel 1963, trascorre l’infanzia nella campagna ungherese in una normalissima famiglia, in un Paese stretto nel Patto di Varsavia, limitato dal regime filosovietico. Si trasferisce nella capitale per studiare Legge, dopo la laurea si specializzerà al Pembroke College di Oxford, con una borsa di studio finanziata proprio da Soros. Ma è nel 1989, nella Piazza degli Eroi di Budapest, che Orban diventa Orban: durante una grande manifestazione in ricordo dei martiri della Rivoluzione del 1956, è lui che con coraggio urla alla folla tutta la rabbia contro Mosca ordinando alle truppe sovietiche di andarsene. Ha già il carisma del capopopolo. È mosso da ideali che negli anni rinnegherà, almeno in parte, per senso pratico, forse solo per continuare a fare quello che di volta in volta considera l’interesse nazionale più urgente. Già allora, comunque voleva arrivare in alto: non importa se come campione della libertà o come leader autoritario e sovranista.
Nella grande piazza, sotto le statue degli Eroi che hanno fatto la Nazione, oggi la gente passa di fretta. Tre ragazzi di vent’anni si fermano a discutere del voto di domani, non hanno un’idea chiara né su chi scegliere né sulla figura di Orban, due di loro andranno a studiare all’stero: «Appena potremo, magari in Germania o in Olanda, e poi vedremo se vorremo ancora tornare in Ungheria», dice Gabor. «Credo che questo governo abbia calpestato la nostra democrazia ma penso anche che abbia fatto stare meglio la gente: se mi guardo attorno - spiega Eva - non vedo altri Paesi dell’area che abbiamo avuto progressi maggiori, forse solo la Repubblica Ceca, ma lì siamo quasi in Germania». «Cosa voterò ancora non lo so», dice Janos, indeciso come almeno altri 700mila ungheresi, l’unica piccolissima speranza per i partiti di opposizione. «Mi fanno paura i nazisti dello Jobbik - continua Janos - e a sinistra non si muove niente. Orban non mi piace ma capisco perché tanti ungheresi si affidino a lui come fosse al leader in grado di dare un futuro a questo Paese».
Già nel 1988 Orban aveva fondato il Fidesz, la sua prima esperienza da premier arriva dieci anni dopo. Impara dalle sconfitte e “sente” il Paese. Quando riesce a tornare al governo nel 2010 sa cosa fare: cavalca la voglia di rivalsa degli ungheresi, contro l’Occidente, contro le banche straniere; aiuta le famiglie con sussidi per i figli; abbassa l’età della pensione. Interviene con la mano pesante in settori strategici come l’energia e la finanza ma il suo governo rilancia l’economia. Soprattutto accentra tutto il potere che può nelle sua mani: mette il bavaglio ai media, sotto controllo la magistratura, minaccia le organizzazioni non governative. La sua azione è martellante, la sua propaganda non si ferma di fronte a nulla.
«Dal 2010 in poi - spiega Kristin Makszin, ricercatrice all’Istituto di Scienze politiche dell’Accademia ungherese delle scienze - la democrazia ungherese è cambiata profondamente. Orban ne va fiero, lo considera un successo, e usa tutta la retorica del nazionalismo per proporre quella che definisce una “democrazia illiberale” nella quale i valori conservatori della patria, dell’identità culturale prendono il sopravvento sulla libertà delle persone. L’obiettivo delle riforme di Orban, compresi i cambiamenti della Costituzione del sistema elettorale senza alcun confronto con le opposizioni, è come minimo allarmante. Le istituzioni democratiche sono state del tutto manomesse in modo graduale e molti cittadini non se ne sono resi conto, purtroppo capiranno solo nei prossimi anni le conseguenze negative delle politiche di questo regime autoritario». E non è ancora finita, solo Orban sa dove vuole arrivare.
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