Abbassare i dazi sull’auto, ma soprattutto abbattere i divieti su carne agli ormoni e mais geneticamente modificato, tracciabilità dei prodotti alimentari e molto altro ancora. La lista delle possibili richieste americane a Bruxelles, in cambio dell’esenzione definitiva dalle tariffe su acciaio e alluminio in scadenza il 1° maggio, è contenuta in un cahier de doleances lungo 47 pagine, all’interno del «National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers 2018», redatto dall’Ufficio del Rappresentante Usa per il commercio, l’agenzia guidata dal falco Robert Lighthizer.
Il rapporto annuale sulle barriere all’export made in Usa è un tomo di 496 pagine e passa in rassegna oltre 90 Paesi. Il capitolo sull’Unione Europea è il più corposo, tre volte più lungo di quello sulla Cina, “appena” 18 pagine. I dazi Ue sono un paragrafo stringato: la gran parte delle restrizioni che gli Stati Uniti vorrebbero abbattere sono di natura non tariffaria e ciascuna di loro potrebbe avere costi politici alti per un’Unione Europea in crisi di fiducia dopo la stagione dell’austerity e alle prese con il vento sovranista e populista.
Il marchio Ce
Si parte con l’attacco a tutto campo al marchio Ce, quello che attesta che un prodotto rispetta gli standard armonizzati di
sicurezza e qualità della Ue (En), requisito richiesto anche agli Stati con cui Bruxelles sigla accordi di libero scambio.
Per gli Usa è una barriera all’accesso al mercato europeo che impone alle aziende americane costi ingiustificati, anche quando
i loro prodotti già «rispettano standard internazionali». Una pratica, si legge nel rapporto, che sarebbe in contrasto con
le regole di quella Wto che gli Stati Uniti puntano a smantellare, anche attraverso il boicottaggio del suo sistema di soluzione
delle dispute commerciali.
Tracciabilità
Qui gli Usa mettono nel mirino proprio l’Italia, in prima linea nell’uso «competitivo», in senso distorsivo del mercato, delle
etichette sulla provenienza di prodotti e ingredienti alimentari. Iniziativa promossa negli ultimi due anni insieme a Francia,
Finlandia, Grecia, Lituania, Portogallo, Romania e Spagna, con l’obiettivo di specificare il Paese di nascita, allevamento
e macellazione degli animali, il Paese di mungitura del latte, di packaging e lavorazione dei prodotti caseari, il Paese di
coltivazione e lavorazione del grano. Informazioni necessarie a permettere ai consumatori la scelta consapevole di quello
che mangiano, secondo i Paesi europei. Procedure onerose e discriminanti per i produttori americani, lamentano gli Stati Uniti.
Indicazioni geografiche tipiche
Su Igp, Dop e Sgt (specialità tradizionali garantite), la battaglia tra Usa e Ue è dura da anni. Secondo il regolamento Ue 1151/2012, la protezione di queste produzioni non ha solo valenza economica: «Sono parte integrante del patrimonio culturale e gastronomico vivo» dell’Europa. L’Italia ne ha 295, sono le sue eccellenze agroalimentari. Per gli Stati Uniti si tratta di violazioni degli standard internazionali che impongono oneri inutili ai produttori, come indicare il posto in cui il bestiame viene allevato, e confondono i consumatori.
Gli Usa si oppongono alla registrazione di «nomi comuni di prodotto» come marchi: nei loro supermercati il Parmesan (e non solo) viene venduto sfruttando la fama del Parmigiano e il fenomeno dell’italian sounding. Le stesse rimostranze vengono fatte sull’uso di chateau come marchio per il vino.
Capitolo a parte merita il whiskey, indubbiamente un prodotto tipico Usa. La Ue pretende che per essere chiamato così, deve essere invecchiato almeno tre anni. Troppi, lamentano gli americani.
Bistecche agli ormoni, cloni, Ogm
Le misure che la Ue adotta «apparentemente a tutela della sicurezza alimentare, della vita e della salute di persone, animali
o piante», rappresentano «inutili restrizioni al commercio» e non hanno nulla a che fare con questioni di sicurezza perché
«non basate su principi scientifici, non sostenute da prove scientifiche sufficienti, o non applicate esclusivamente nella
misura necessaria». A cosa si riferisce il rapporto Usa? Ai divieti Ue su mais e soia Ogm, su carni prodotte da animali allevati
con ormoni della crescita e farmaci beta-bloccanti, sulle carni trattate con disinfettanti per abbatterne la carica batterica
accumulata nella macellazione, sul latte con elevate concentrazioni di cellule somatiche, indice di possibili patologie, e
per finire al bando su carne, pesce e ogni derivato prodotto da animali clonati.
Anche il divieto di importare bovini che non superano le misure di salvaguardia dal rischio Bse è considerata una misura protezionistica. Il rapporto ha una semplice soluzione per liberalizzare gli scambi: l’Europa dovrebbe riconoscere gli standard adottati dagli Stati Uniti, che per esempio considerano la clonazione un «vantaggio» per gli allevamenti.
Sulla carne agli ormoni, la Ue ha perso il ricorso Usa alla Wto e subisce dazi compensativi del 100% su alcuni prodotti. Nel 2017, la Commissione ha autorizzato, su base volontaria, 11 mangimi Ogm. Ma gli Stati membri, lamenta Washington, sono restii.
Pesticidi e & co.
Con le stesse lenti, gli Usa criticano i vincoli Ue all’utilizzo nell’agroalimentare di sostanze che possono interferire con
l’equilibrio ormonale dei consumatori e di alcuni pesticidi (come il fosetilalluminio, che negli Usa viene usato come fertilizzante).
Vincoli privi di fondamento scientifico, lamenta il rapporto, che mettono a rischio oltre 5 miliardi di dollari di esportazioni
Usa.
Il regolamento Reach
L’impostazione è piuttosto chiara: quelle che per l’Europa sono norme a tutela dell’ambiente e della salute, per gli Usa rappresentano invece solo artificiosi strumenti protezionistici. A questa la logica non sfugge il regolamento Reach (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals), adottato nel 2007 per contro i rischi delle sostanze chimiche prodotte o importate in Europa. Secondo gli Usa, il suo scopo è imporre «oneri più pesanti o semplicemente inutili ai produttori extra-Ue». Il regolamento si applica a tutte le sostanze chimiche: non solo a quelle utilizzate nei processi industriali, ma anche a quelle presenti in detersivi, detergenti, vernici, abiti, mobili, elettrodomestici e interessa la maggior parte delle aziende.
Biofuel
All’amministrazione che non crede al climate change, che è uscita dagli accordi di Parigi e che punta a dare nuovo impulso
al carbone, le normative Ue sulla limitazione dei gas serra non possono andar giù. Ecco che finiscono nel mirino la direttiva
Red, sulle energie rinnovabili, che spiazza etanolo e soia per biofuel americani, e la Red II approvata a gennaio dall’Europarlamento
e che metterebbe a rischio 655 milioni di dollari di export di pellet a stelle e strisce.
Dazi, barriere non tariffarie e sussidi
Poche righe per ricordare i prodotti sui quali i dazi Ue, tutti vincolati alle regole Wto, sono alti: 26% su pesce, 22% sui
furgoni,14% su apparecchi audiovisivi e biciclette, 10% su auto e prodotti in legno. Più lunga la lista delle supposte barriere
non tariffarie, che includono le norme italiane sul sistema dei prezzi e dei rimborsi per i farmaci e i contributi Ue all’agricoltura.
Non poteva mancare il capitolo Airbus: la faida dei cieli con l’americana Boeing impegna da anni il tribunale della Wto.
Servizi, investimenti, appalti
Oltre a lamentare l’insufficiente apertura degli appalti pubblici e dei servizi, il rapporto attacca le misure Ue a tutela
dell’industria audiovisiva. Qui, all’indice finisce soprattutto la Francia.
Sugli investimenti, il rapporto lamenta pratiche nazionali che di fatto contraddicono i principi Ue di parità di trattamento per le aziende stabilite in uno qualsiasi degli Stati membri. Nel caso italiano finiscono sotto accusa l’Agenzia delle entrate, che ha preso di mira Facebook e Google, le norme fiscali, «che cambiano spesso e sono interpretate in modo incoerente», la lentezza dei procedimenti tributari. E sul capitolo appalti, tra le barriere d’ingresso al mercato italiano risalta «la diffusa corruzione, soprattutto a livello locale».
Digital trade
Gli Usa guardano con sospetto il progetto Ue di costruire un mercato digitale unico, con il corollario di norme a tutela della
privacy e dei dati personali, che temono possa limitare scambi e investimenti tra le due sponde dell’Atlantico.
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