«Russia e Cina giocano alla svalutazione monetaria mentre gli Usa continuano ad alzare i tassi di interesse. Inaccettabile». Al presidente Usa, Donald Trump, basta un tweet per aprire un nuovo fronte nell’offensiva scatenata contro Mosca e Pechino. E lo fa appena tre giorni dopo la pubblicazione di un report del dipartimento del Tesoro, che almeno su questo versante, scagiona la Cina. L’Europa, a sua volta nel mirino dell’amministrazione Usa, si adegua al nuovo scenario con un regolamento sulle misure antidumping.
Il fronte valutario
Dopo le sanzioni alla Russia per il suo ruolo nel conflitto siriano e dopo la salva di dazi sulle esportazioni cinesi, Trump rispolvera uno dei tormentoni della campagna per le presidenziali 2016, durante la quale aveva promesso di dichiarare la Cina «manipolatore della moneta» nel primo giorno di mandato. Una minaccia alla quale non ha più dato seguito, ma che ora torna ad agitare. Anche contro la Russia.
L’accusa è la solita: svalutare la moneta per spingere l’export. Lo yuan, però, ha guadagnato circa il 10% sul dollaro negli ultimi 12 mesi ed è ai massimi da agosto del 2015. Il rublo, invece, ha perso quasi il 10%, ma la flessione è stata accentuata dalle sanzioni Usa a uomini d’affari, società e alleati di Vladimir Putin.
Il Tesoro scagiona Pechino
Pochi giorni fa, il dipartimento del Tesoro ha presentato il suo rapporto semestrale sulle politiche macroeconomiche e valutarie dei principali partner commerciali degli Usa. Un’analisi svolta due volte l’anno, per individuare chi “bara” e attivare contromisure. Secondo il referto di aprile, nel 2017 nessuno dei Paesi considerati è risultato positivo al doping valutario (responso confermato nei primi mesi dell’anno in corso). Nemmeno la Cina. Sei Paesi, tuttavia, sono sorvegliati speciali: Giappone, Corea del Sud, Germania, Svizzera, India e l’immancabile Cina.
Questi Paesi si guadagnano l’attenzione del Governo americano perché infrangono almeno uno dei tre paletti che il dipartimento del Tesoro adotta per individuare i manipolatori (sulla base di una legge del 2015). La Russia non è neanche presa in considerazione.
I tre criteri
I parametri sono il surplus commerciale con gli Stati Uniti, il saldo delle partite correnti e gli interventi sul mercato dei cambi. Per il Tesoro, la prima bandierina rossa si accende quando il surplus bilaterale nell’interscambio di beni raggiunge i 20 miliardi di dollari (0,1% del Pil Usa). Nel 2017, la spia si è accesa per sette Paesi: Cina, Messico, Giappone, Germania, Italia, India e Corea del Sud.
Il secondo parametro è il surplus delle partite correnti: la spia si accende quando supera il 3% del Pil. Tra i Paesi sotto osservazione, questo accade per Germania (8,1% del Pil), Svizzera (9,8%) e Giappone (4%). La Cina è ferma all’1,4%. Dura la critica alla Germania, colpevole di avere il «più ampio surplus delle partite correnti al mondo in termini nominali: 299 miliardi di dollari nel 2017».
Infine, c’è il grado di interventismo sui cambi, che il Tesoro giudica allarmante quando l’acquisto (netto) di valuta estera supera il 2% del Pil in un anno. La spia si accende per Svizzera e India.
Nessun Paese fa scattare tutti e tre gli indicatori. Giappone, Germania, India, Corea del Sud e Svizzera sono “positive” a due parametri su tre e quindi sono sotto sorveglianza speciale, insieme alla Cina, dall’alto dei suoi 375 miliardi di dollari di surplus nello scambio di beni (che scenderebbe a 110, sommato il saldo nei servizi e l’effetto delle global value chain, secondo l’economista George Magnus). Pechino, si legge nel report, è una minaccia «per i suoi maggiori partner commerciali e per la crescita globale». Per questo, dovrebbe spingere i consumi e ridimensionare gli investimenti. La Cina, per ora, si salva anche dallo screening effettuato dal Tesoro in base un altra legge, del 1988, che punta a individuare in particolare le svalutazioni competitive dei tassi di cambio.
Giappone, Germania e Corea si qualificano come recidivi, con due parametri su tre fuori norma da quando il Tesoro redige il report, vale a dire da aprile del 2016.
Solo una volta gli Usa hanno “marchiato” un Paese come manipolatore della moneta: neanche a dirlo era la Cina, nel 1994.
Le mosse di Bruxelles
Al “tintinnar di sciabole” che riecheggia dall’altra sponda dell’Atlantico, l’Unione europea risponde portando avanti la riforma del proprio meccanismo di difesa antidumping. Ieri, il Consiglio Ue ha adottato il nuovo regolamento sugli strumenti di difesa commerciale, dando seguito all’accordo politico raggiunto a dicembre e risultato del dibattito europeo sulla questione del riconoscimento (di fatto negato) dello status di economia di mercato alla Cina. Il regolamento è stato adottato a maggioranza: l’Irlanda si è astenuta, Svezia e Regno Unito hanno votato contro. Il testo passerà ora all’esame dell’Europarlamento.
La prossima settimana, sia Angela Merkel che Emmanuel Macron incontreranno, separatamente, Trump a Washington. Il 1° maggio scade la sospensione dai dazi su acciaio e alluminio e la Ue ne chiede la conferma «piena, incondizionata e permanente». Solo successivamente «potranno essere discusse questioni commerciali bilaterali», ha detto ieri un portavoce della Commissione. Sempre ieri, seguendo l’esempio di Pechino, Bruxelles ha depositato ricorso alla Wto contro le tariffe sulla siderurgia, sostenendo che non rispondono a esigenze di sicurezza nazionale e chiedendo compensazioni economiche.
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