«Pazienza, persistenza, prudenza». Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha ripetuto la formula magica della politica monetaria di questa fase non più tardi di venerdì scorso. Ha di fatto escluso qualunque sorpresa - per altro già giudicata improbabile - dalla riunione di aprile del consiglio direttivo. Settembre però non è più così lontano: la fine dell’attuale round di acquisti di titoli (il “quantitative easing”) si avvicina, e se è troppo presto per preparare la fase successiva, ogni piccola sfumatura nelle parole della conferenza stampa sarà oggetto di attenta analisi da parte di investitori e analisti.
Inflazione sotto tono...
Il motivo è semplice: l’inflazione resta ostinatamente bassa. A marzo l’indice complessivo è salito dell’1,3%, lo stesso ritmo - e non accadeva da dicembre 2016 - dell’indice core preferito dalla Bce (che esclude energia e alimentari non trattati). Nell’Unione monetaria la misura ristretta della dinamica dei prezzi tende a seguire quella più ampia - il contrario accade negli Usa - e quindi se il fenomeno dovesse continuare l’inflazione potrebbe calare ulteriormente.
...ma ancora in linea con le attese
Non sarebbe del tutto una sorpresa: la Bce ha più volte avvertito che quest’anno i prezzi si muoveranno lentamente. A fine 2018 l’inflazione annua media potrebbe essere pari all’1,4% quest’anno e il prossimo (che corrisponde a una previsione naive: la media dei dodici mesi passati è a quel livello). Per raggiungere l’obiettivo a dicembre occorrerebbe una dinamica dei prezzi dell’1,5% per tutti i mesi da aprile a dicembre.
Il rialzo del petrolio
Un’inflazione un po’ più rapida non è in realtà impossibile. A complicare uno scenario già incerto c’è infatti il recente rialzo del prezzo del petrolio, che ha raggiunto i 70 dollari al barile per la prima volta dal 2014. Non è chiaro se questo aumento sarà duraturo, né se i suoi effetti principali si manifesteranno sulla crescita - il primo trimestre di Eurolandia, peraltro, non è stato brillantissimo - o sull’inflazione e in che misura. Se anche l’inflazione (complessiva) dovesse rialzare la testa a causa del greggio, però, l’andamento dell’inflazione core potrebbe non essere giudicato soddisfacente dalla Bce. È già accaduto, del resto.
Condizioni monetarie stabili
Con un obiettivo di inflazione al 2% - autosostenibile - è proprio vero , allora, che «un alto livello di stimolo monetario resta necessario», come ha precisato Draghi la settimana scorsa. Le condizioni monetarie, peraltro, non sono mutate e non richiedono nuovi interventi, neanche verbali. Dopo il balzo legato alla riduzione del ritmo degli acquisti, la curva dei rendimenti a breve termine (0-2 anni) non è sostanzialmente mutata.
Cambio sulla media di lungo periodo
Analogamente, l’andamento del cambio (effettivo, verso le valute dei maggiori partner) non sembra discostarsi dalla media di lungo periodo, che è una delle misure di riferimento del valore dell’euro. Le preoccupazioni dei mesi scorsi su un improvvisi rialzi della valuta si sono svuotate. Se però un valore “normale” della moneta comune è compatibile con una ripresa non fortissima ma comunque rilevante per l’intera area, la politica monetaria è - anche in prospettiva - molto più espansiva in Eurolandia che negli Stati Uniti, o in Gran Bretagna: ci si può chiedere allora perché non si trasformi in un valore meno elevato del cambio.
Prestiti in rialzo
A questo punto, e adottando un orizzonte temporale più ampio, è però opportuno - in Eurolandia, almeno - chiedersi se si può ancora sperare, come fa la Bce, che la più rapida attività economica si possa trasformare in una dinamica più veloce dei prezzi o se l’economia sia di fronte a un mutamento strutturale che richieda non solo strategie ma anche obiettivi tutti nuovi. Gli acquisti di titoli sembrano volersi ora trasformare in maggiori prestiti alle imprese (misurati secondo gli aggregati delle statistiche su M3). In un paese almeno, la Francia - peraltro molto indebitata - il credito sembra addirittura surriscaldarsi.
Il mistero della curva di Phillips
La curva di Phillips, che lega disoccupazione (e quindi crescita) e inflazione, non appare - almeno se osservata nella sua versione più semplicistica, e di breve periodo - puntare verso una dinamica dei prezzi più rapida. Anzi. Un decimo di disoccupazione in meno dovrebbe trasformarsi in un aumento dell’inflazione dello 0,07%, ma nell’ultima fase della stagione del qe questo non accade.
Una curva invertita?
Al punto che aumenta sempre più il valore esplicativo un’altra curva, che contempla solo i dati da gennaio 2017, e appare - ma si tratta di una semplice analisi esplorativa - addirittura invertita: a una minore disoccupazione corrisponderebbe una minore inflazione. Mutamenti così rapidi della curva di Phillips sono normali (e questo fenomeno rende la relazione molto poco affidabile), ma se la tendenza dovesse approfondirsi la politica monetaria potrebbe, a questo punto, avere più costi che benefici per la struttura produttiva dell’economia .
Un obiettivo compatibile?
Anche se il rialzo del petrolio dovesse di nuovo spostare la curva di Philips, come potrebbe accadere, l’interrogativo non sparirebbe. L’impatto delle tecnologie potrebbe aver rallentato strutturalmente l’andamento dei prezzi. È però normale e naturale - se non altro per rispetto del requisito della «prudenza» - che la Bce sia l’ultima a porsi questo interrogativo: al di là di qualche domanda, che del resto non manca quasi mai, nessuna forma di “revisionismo”, per così dire apparirà nelle parole di Draghi. La questione però è molto seria.
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