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Turchia, la linea rossa della libertà di stampa

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Turchia, la linea rossa della libertà di stampa

(Afp)
(Afp)

Può un Paese democratico andare al voto politico e presidenziale con il 90% dei media in mano a gruppi vicini al partito di maggioranza relativa? Secondo Repoters senza frontiere è questo il rischio che si sta verificando in Turchia dopo la vendita dei media del gruppo Dogan a una società di un imprenditore vicino all'Akp, il partito filo-islamico al governo dal novembre 2002, cioè da 16 anni di fila. Non solo. Secondo l'ufficio di ricerca del Parlamento europeo una nuova legge turca del 21 marzo 2018 aumenta i controlli statali su internet riducendo ulteriormente gli spazi di critica.

Per questo motivo il 3 e 4 maggio si è svolto un importante seminario sulla situazione dei media in Turchia presso il Parlamento europeo di Bruxelles. L'apertura dei lavori è stata fatta da Antonio Tajani, presidente dell'assemblea parlamentare europea, secondo cui “La ragione del seminario è che la Turchia è tra i paesi in cui la libertà di stampa è peggiorata di più. Negli ultimi 10 anni - nonostante l'inizio dei negoziati di adesione - la Turchia ha perso 55 posizioni nell'indice della Free Press Index. Ora è tra i peggiori paesi di tutto il mondo”.

Una accusa controversa? Non proprio. “Nel 2017, 73 giornalisti sono stati arrestati nel paese - ha proseguito Tajani particolamente sensibile al tema essendo stato giornalista prima di intraprendere la carriera politica -. Secondo un rapporto di Die Zeit, 155 giornalisti, arrestati dopo il fallito colpo di stato, sono ancora in prigione. Amnesty International riferisce che 180 media sono stati chiusi dopo luglio”.

Poi c'è stata la sottolineatura politica su questa pericolosa deriva. “Questa situazione inaccettabile - ha detto il presidente del Parlamento - chiarisce che la Turchia sta volgendo le spalle ai nostri valori fondamentali. Sarà ipocrita non riconoscere questo fatto e non trarre le conclusioni inevitabili”.

Naturalmente “le autorità turche hanno ancora la possibilità di invertire questa tendenza. La nostra porta rimane aperta ai turchi che dovrebbero continuare ad avere una prospettiva europea. Tuttavia, senza un cambiamento radicale immediato, non c'è posto per questa Turchia nella nostra Unione”, ha concluso Tajani.

Il segnale lanciato da Tajani è forte e condiviso a Bruxelles al punto che è stato raccolto dalla vice presidente del Parlamento europeo, la socialista Sylvie Guillaume, che ha proposto nel corso del medesimo seminario di ridurre i finanziamenti in corso alla Turchia se non dovesse rilasciare i giornalisti in prigione. Certo Ankara ha le chiavi di una prezioso accordo sui migranti siriani che garantisce la chiusura della via balcanica e la tenuta politica di Angela Merkel. Ma il punto è che andare al voto in Turchia con poche voci critiche è una lesione della democrazia parlamentare.

Per questo Hasan Cemal, ex direttore di Cumhuriyet e di Sabah, due dei maggiori giornali turchi e costretto alle dimissioni da opinionista da Milliyet dopo un intervento critico di Erdogan nei suoi confronti, ha lanciato proprio nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles l'ennesimo allarme sulla situazione dei media turchi: “Il Paese è una grande prigione dove dei parlamentari dell'HDP (il partito curdo, ndr) sono incarcerati. Vivo nel mio Paese come fossi in esilio. La Turchia guarda ad Est e sta voltando le spalle all'Europa e ai suoi valori”. Una situazione che si inserisce in un desolante stallo negoziale tra Ue e Ankara. Come ha ricordato Myriam Ferran, direttore per la Turchia della Commissione europea, ”ci sono 16 capitoli negoziali aperti, uno solo chiuso ma i negoziati sono sospesi”. Intanto nella indifferenza degli stati membri e dell'opinione pubblica internazionale Ankara, paese candidato all'adesione, ha superato la linea rossa del rispetto della libertà di stampa con 130 giornalisti arrestati nei primi quattro mesi successivi al fallito colpo di stato del luglio 2016, di cui 64 poi rilasciati.

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