A meno che non si tratti della resa incondizionata di una parte in causa alla fine di una guerra, in diplomazia non esiste l’accordo perfetto. Perché il suo compito non è fare miracoli ma costruire compromessi che nella loro imperfezione evitano il peggio. Esattamente come il JCPOA, l’acronimo complicato dell’intesa con l’Iran che non garantisce la pace in Medio Oriente ma impedisce che fino al 2030 Teheran abbia l’arma nucleare.
Alla fine di una descrizione piuttosto surreale della regione, con molte inesattezze e alcune bugie, Donald Trump ha deciso di uscire dall’accordo ritenendolo «a disaster». Contro il giudizio della maggioranza dei suoi consiglieri, degli alleati europei, delle Nazioni Unite e dei partner/concorrenti cinesi e russi. L’elenco dei favorevoli al rifiuto di Trump è molto più breve ma significativo: Israele e Arabia Saudita, cioè i due alleati dell’America nella regione, molto interessati al confronto anche militare con l’Iran. In realtà almeno in Israele molti sostenevano il JCPOA: il capo di stato maggiore delle forze armate e i suoi predecessori, i responsabili in carica e quelli in pensione dei servizi d’intelligence. Per loro, più esperti di Trump e di Bibi Netanyahu, l’Iran non sta violando gli accordi che restano il migliore antidoto possibile alla proliferazione nucleare nella regione più pericolosa del mondo.
La decisione di Trump era prevista, e nelle ultime ore era data per scontata. Bisognava però capire come l’avrebbe declinata: il modo più estremo sarebbe stato reimporre le sanzioni economiche all’Iran, minacciando conseguenze anche per gli altri contraenti dell’accordo nel caso avessero continuato ad avere rapporti economici con Teheran. Il JCPOA infatti non è un trattato bilaterale fra Stati Uniti e Iran come Trump crede che sia, ma fra Iran da una parte, e Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Cina, Ue e Onu dall’altra. Il presidente ha confermato che gli Stati Uniti ripristineranno le vecchie sanzioni contro l’Iran, e il Congresso a maggioranza repubblicana ne imporrà di nuove: «il massimo livello di sanzioni economiche». Ma non ha minacciato di punire gli altri contraenti.
È un atteggiamento un po’ più cauto che tuttavia non lenisce gli effetti dell’uscita americana dal JCPOA. Si allarga il solco con gli alleati europei, già aperto dalle minacce sui dazi; aumentano le opportunità di Cina e soprattutto Russia, di sostituirsi all’America come partner moderati e credibili per cercare in Medio Oriente la via del negoziato; verrà rafforzata l’ala militarista, religiosa e conservatrice del potere iraniano e s’indebolirà quella moderata e riformista. Sedici mesi dopo l’insediamento del presidente, continua a non essere chiaro se l’America di Trump voglia essere isolazionista o imperiale. Nel frattempo il problema è l’attendibilità. Nel suo intervento alla Casa Bianca Trump ha portato come esempio positivo la trattativa sul nucleare nordcoreano. Ma quanto sarà interessato Kim Jong-un a un accordo sul suo nucleare con un’America che da un presidente a un altro firma trattati e poi li vìola?
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