L’indiscrezione è stata smentita. Non perché fosse falsa, ma perché «superata». È indubbio però che la vecchia bozza di programma M5s-Lega conteneva quella richiesta incredibile: la cancellazione di 250 miliardi di euro di titoli di Stato detenuti dalla Banca centrale europea. Una proposta che rivela non solo una idea sbagliata dei rapporti tra la Bce e i singoli governi, ma anche un’idea sbagliata del funzionamento delle autorità monetarie.
Una perdita autoinflitta
Incredibile perché? Tecnicamente non è impossibile che una banca centrale “rinunci” ai crediti. Se lo facesse una banca privata sarebbe però un atto economicamente gravissimo, perché significherebbe azzerare un investimento, un credito e trasformarlo - e volontariamente - in carta straccia: dovrebbe registrare una perdita e ridurre di conseguenza il patrimonio. L’idea sottostante la richiesta di M5S e Lega è che per l’autorità monetaria le cose sarebbero più semplici. Non è così, per molti motivi. A cominciare dal fatto che l’insieme delle banche centrali di Eurolandia ha un patrimonio consolidato di 102 miliardi. Insufficiente.
Cancellare moneta
Una banca centrale, tecnicamente e in via del tutto astratta, potrebbe forse seguire una strada diversa rispetto a un’azienda privata. Non meno traumatica, però. Dovrebbe distruggere - a fronte della “distruzione” di una voce dell’attivo, i titoli di Stato - un’altra voce del passivo, la base monetaria. Tanta base monetaria: l’8% di quella europea, il 75% di quella italiana. Si tratta di “spegnere” in gran parte il motore che permette di creare moneta, insomma: distruggere banconote, ma in Italia non circolano più di 150 miliardi di euro “fisici”; oppure cancellare i debiti - i depositi - che la Bce ha nei confronti delle banche commerciali (come? con quali poteri?), trasferendo così la perdita alle imprese creditizie pubbliche e private.
Scaricare il peso sulle banche italiane
Quali? Quelle italiane soprattutto: la quasi totalità del debito pubblico italiano acquistato dalla Bce è nel portafoglio della Banca d’Italia (così come quello francese è detenuto dalla Banque de France, e così via), proprio allo scopo di evitare che qualsiasi rischio di default - e cancellare un credito è un default - ricadesse su altri Paesi. Il costo per l’economia italiana, insomma, sarebbe di gran lunga superiore ai 250 miliardi cancellati. Senza contare il fatto, fondamentale, che i depositi delle aziende di credito verso la Banca d’Italia non raggiungono quella cifra. L’operazione, oltre a essere tecnicamente assurda, è anche tecnicamente impossibile.
Il divieto di finanziamento
La discussione peraltro sarebbe puramente accademica, se non fosse apparsa sul tavolo delle trattative per la formazione del governo e trasferita su una bozza di programma. I Trattati Ue infatti vietano alla Banca centrale europea qualsiasi forma di finanziamento degli Stati membri di Eurolandia e la cancellazione del credito ricade direttamente in questa categoria. Gli acquisti di titoli nell’ambito del quantitative easing, del resto, non sono mai effettuati direttamente dai governi, ma sempre sul mercato.
Utili dalla Grecia
Il caso della Grecia, sotto questo punto di vista, è un precedente importante. La Banca centrale europea ha ancora in portafoglio titoli greci acquistati nel 2010 e ne riceve regolarmente capitali e interessi. A ottobre, in una risposta scritta a un deputato europeo, la Bce aveva anzi ammesso di aver ricavato da quel portafoglio, nel periodo 2012-2016, utili per 7,8 miliardi poi redistribuiti ai Paesi membri in proporzione alle loro quote di capitale. Neanche nel caso greco, decisamente tragico, la Bce ha potuto fare di più di quanto ha fatto.
L’«esempio» del Giappone.
Nel 2016 uno studio della Pictet Asset Management aveva ipotizzato la cancellazione di 10mila miliardi di yen (88 miliardi di euro ai cambi del tempo) del debito giapponese. L’obiettivo era di “cancellare” l’equivalenza ricardiana, la consapevolezza che i debiti non sono altro che tasse spese prima di essere riscosse. Secondo lo studio il prezzo da pagare era, appunto, quello di avere una banca centrale con patrimonio netto negativo, circostanza che (forse) non richiede un intervento così urgente come in una banca privata ma che comunque va risanata. Come? Con una ricapitalizzazione, pagata evidentemente con il denaro dei contribuenti: tasse, quindi, ancora una volta. Dall’equivalenza ricardiana - anche tenendo conto della dinamica dell’economia - non si scappa.
La proposta Paris-Wyplosz
Un’alternativa è stata proposta dal banchiere Pierre Paris e dall’economista Charles Wyplosz nel 2013, prima quindi dell’avvio del quantitative easing. La Bce, hanno spiegato i due tecnici, potrebbe trasformare i bond acquistati con bond perpetui (senza scadenza) a tasso zero. Resterebbero per sempre nel portafoglio della banca centrale, senza produrre però profitti, e non sarebbe necessario distruggere patrimonio e base monetaria. Ingegnoso, indubbiamente. I due economisti riconoscono che si tratta di «una foglia di fico» con un enorme «moral hazard»: si tratta di un default e avrebbe tutti gli effetti - di fiducia, di reputazione, di credibilità - di un default. Senza contare che, nel momento in cui la base monetaria dovesse essere ridimensionata - in un ciclo “normale” accade - la banca centrale potrebbe incontrare qualche difficoltà.
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