ROTTERDAM - Dal World Port Center, il grattacielo di 124 metri disegnato da Norman Foster che ospita gli uffici dell’Autorità portuale, lo sguardo può abbracciare in tutta la sua ardita progettualità il Porto di Rotterdam: una città nella città che dalla Nieuwe Maas, delta del Reno, si estende per 42 chilometri fino ai nuovi terminal di Maasvlakte 2, estrema propaggine nel Mare del Nord.
È la porta d’Europa, attraverso cui passa il maggior volume di traffico merci del Vecchio Continente: 467,4 milioni di tonnellate nel 2017, con una crescita sul 2016 trainata soprattutto dai container (+12,3%). Un primato che oggi fa i conti con impegnative sfide geopolitiche, a cominciare da Brexit.
Le ricadute di Brexit
Al Porto non vogliono drammatizzare. «Siamo preoccupati ma non stressati» assicura Michiel Nijdam, corporate strategist dell’Autorità portuale. «Abbiamo fatto delle stime sull’impatto, ovviamente molto preliminari perché nessuno sa ancora che tipo di Brexit sarà: quanto sarà hard, quanto saranno rapidi gli accordi su commercio e barriere doganali. Ci saranno effetti sugli scambi e probabilmente avremo meno merci in partenza e in arrivo dalla Gran Bretagna, ma non sarà una flessione enorme, forse dell’ordine del 2 per cento. Ci sarà dunque un impatto negativo, ma crediamo che sarà gestibile».
Al di là delle ricadute dirette sugli scambi – peraltro non trascurabili se si considera che oggi il Regno Unito è il secondo partner commerciale dell’Olanda, con un interscambio di beni che supera i 60 miliardi – l’incognita maggiore è rappresentata dalle barriere non tariffarie: il ripristino di controlli alla frontiera. «È il risvolto pratico di Brexit – riconosce Nijdam -: servirà più personale alla dogana e per le ispezioni sanitarie, più spazio nel porto da destinare a queste operazioni. Ci saranno costi maggiori e ritardi e il tempo è denaro».
Il Governo olandese inizia a muoversi per far fronte a queste necessità e ha annunciato una prima tranche di nuove assunzioni, circa un centinaio di funzionari doganali: un numero inizialmente sufficiente secondo Nijdam, soprattutto se il sistema, ampiamente automatizzato e digitale, funzionerà a dovere.
I timori degli imprenditori
Meno rassicurante è Bas Janssen, direttore di Deltalinqs, l’associazione che raggruppa oltre 700 imprese del porto. «Abbiamo dovuto suonare la sveglia», sbotta dal modernissimo centro direzionale di Port City II. «Fino a pochi mesi fa Brexit non era veramente nell’agenda degli imprenditori di Rotterdam, era considerata qualcosa di lontano; ma a marzo dell’anno prossimo sarà realtà e dobbiamo aspettarci un atterraggio brusco. Abbiamo fatto capire che le aziende devono perciò prepararsi e deve prepararsi soprattutto l’amministrazione pubblica. Serviranno doganieri: in Olanda abbiamo circa 4.500 funzionari, ne occorrerà un 20% in più in caso di hard Brexit, circa un migliaio, e il governo ha ora deciso di assumerli. Una vera e propria sfida saranno poi le ispezioni veterinarie e fitosanitarie delle merci: qui ci serviranno 50-100 nuovi ispettori, che non si possono formare in un anno scarso. E poi ci sono i problemi logistici: verdura e altri prodotti coltivati in serra che oggi, grazie all’assenza di barriere, possono partire nel giro di un’ora per la Gran Bretagna e che in futuro dovranno aspettare almeno 24 ore; arterie stradali del porto che, a causa dei controlli, saranno intasate». Sfide impegnative su cui tuttavia ora, secondo Janssen, si sta lavorando in team in maniera produttiva, alla ricerca di «soluzioni pratiche», come potrebbe essere, per esempio, un reindirizzamento altrove o un posticipo dei controlli, per evitare appunto un ingorgo al porto.
Obor: nuove rotte e nuovi concorrenti
Brexit non è l’unica sfida geopolitica per il Porto di Rotterdam. C’è la deriva protezionistica, che minaccia il commercio mondiale. E c’è l’espansionismo cinese, di cui è emblema One Belt One Road, la Nuova via della seta, il doppio corridoio infrastrutturale – marittimo e terrestre – che Pechino ha avviato per potenziare e velocizzare i collegamenti con l’Occidente, con probabili ricadute sulle tradizionali rotte commerciali.
Per Michiel Nijdam è al tempo stesso un’opportunità e una minaccia. «Da una parte aiuta il sistema logistico europeo ad avere più opzioni e crea nuove possibilità per il Porto di Rotterdam, con le merci in arrivo dalla Cina, attraverso il collegamento ferroviario che passa da Kazakhstan e Russia, dirette negli Stati Uniti; dall’altra implica lo sviluppo di alcuni porti nel Sud dell’Europa - a volte con investimento diretto cinese, come nel caso del Pireo – creando maggiore concorrenza. Ma alla concorrenza siamo abituati».
Alla Nuova via della seta cinese ha dedicato studi approfonditi Bart Kuipers, ricercatore senior dell’Università Erasmus di Rotterdam. Anche lui la definisce in parte un’opportunità, considerando che «i cinesi stanno investendo in terminal un po’ ovunque in Europa, Rotterdam compresa», ma sottolinea anche le possibili ripercussioni negative di un “dirottamento” delle merci cinesi dalle tradizionali rotte marittime (con approdo a Rotterdam) al trasporto via treno. Con il conseguente spostamento del baricentro dei flussi commerciali verso l’Europa del Sud e dell’Est, per l’effetto combinato dello sviluppo dei porti meridionali e delle infrastrutture ferroviarie dalla Cina al Vecchio Continente: «Come mostra una mappa del colosso della logistica Prologis, gli investimenti in magazzini destinati alla riesportazione di merci provenienti dalla Cina si stanno spostando da regioni chiave dell’Olanda (per la quale tra l’altro il re-export vale 25 miliardi all’anno, il 4% del Pil) all’Europa dell’Est e questo è molto più pericoloso del numero limitato di container sottratti a Rotterdam dai nuovi collegamenti ferroviari».
L’automazione, scommessa sul futuro
Alle sfide che i porti del Nord sono chiamati ad affrontare Rotterdam risponde con lo sguardo proiettato al futuro: due terminal sono completamente automatizzati, automazione e digitalizzazione sono due capisaldi della strategia per restare competitivi. «L’espansione nel settore dei container - puntualizza ancora il corporate strategist del Porto – passa attraverso un ampio ricorso a strumenti digitali per ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture, con l’obiettivo di raddoppiare il flusso di merci senza raddoppiare le infrastrutture».
Più in generale, come spiega Rob Zuidwijk, professore di Porti nelle reti globali alla Rotterdam School of Management, la business school dell’Università Erasmus, si tratta di rendere il porto sempre più “smart”, attraverso «sviluppi tecnologici in cui i processi sono progressivamente automatizzati e la catena di informazioni viene digitalizzata», fornendo così una risposta alle necessità delle grandi industrie. Con inevitabili ricadute anche per i lavoratori del porto: ai «profili finora dominanti - addetti a manovrare le gru, guidare i camion o mettere a punto piani logistici manuali», subentreranno «persone con un background accademico, per sviluppare ad esempio sistemi automatici e digitali». E sarà sempre più frequente vedere impiegati che, dagli uffici, manovrano con un joystick più gru contemporaneamente.
Non tutti vedono favorevolmente questa evoluzione. Per Niek Stam, segretario nazionale dei portuali del sindacato Fnv Havens, «gli effetti dell’automazione vanno indagati a fondo» visto che al momento «i terminal automatizzati stanno offrendo prestazioni inferiori a quelli tradizionali». Senza dimenticare che sistemi completamente automatizzati si mostrano meno flessibili di fronte a «un modello di business che sempre più fa ricorso a grandi navi», rischiando di paralizzare le attività nel momento in cui arriva in porto un volume superiore al previsto di container da scaricare.
Un porto sempre più «smart»
A Rotterdam però scommettono su questa nuova frontiera. E nel 2010 hanno avviato “SmartPort”, un accordo di cooperazione tra Università Erasmus, Università di Delft, Autorità portuale, istituzioni cittadine e Deltalinqs, che nel 2015 ha assunto la struttura attuale per allargarsi poi agli istituti Tno e Deltares. Come spiega ancora Zuidwijk, uno degli accademici che promuovono l’iniziativa, «è una collaborazione tra azionisti del porto e istituzioni scientifiche. Attraverso specifici progetti di ricerca e roadmap promuove lo sviluppo del porto, fornendo risposta alle domande dell’Autorità e delle aziende che vi lavorano». Emblematico il motto che a Rotterdam sta diventando un mantra: davanti a una competizione sempre più globale «è meglio essere i più smart, i più avanzati, che i più grandi».
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