L’Unione europea ha messo a punto una serie di contromisure di fronte ai dazi imposti da Donald Trump alle importazioni d’acciaio e di alluminio e che il presidente degli Usa vorrebbe estendere anche alle auto, alternando le minacce alle dichiarazioni sulla sua disponibilità a negoziare sulle questioni sul tappeto. Le contromisure europee entreranno in vigore già domani.
C’è tuttavia da chiedersi se la risposta di Bruxelles sarà adeguata, consona alla posta in gioco nella partita ingaggiata da Washington con l’Europa. Si tratta infatti di misurarsi con l’inquilino della Casa Bianca, avvezzo a usare ogni genere di pressioni all’insegna del suo ipernazionalismo. E di tener conto, al contempo, del fatto che quello statunitense costituisce il principale mercato per le nazioni europee più avanzate. Un braccio di ferro, dunque, che comporta una robusta coesione politica e compattezza d’intenti: due requisiti che, per il momento, la Ue non appare possedere, a giudicare dalle divergenze di fondo emerse ultimamente: a cominciare da quelle manifestatesi nell’ambito dell’asse franco-tedesco.
È vero che adesso, alla vigilia del Consiglio europeo di fine giugno, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno cercato di appianarle in linea di massima, come è avvenuto nell’incontro del 19 giugno scorso. Ma è anche vero che esse riguardano due concezioni sostanzialmente diverse tanto in tema di governance dell’eurozona che di direttrici di marcia della Ue nel suo complesso.
Per quanto concerne il primo dilemma si tratta infatti di vedere in quali termini concreti si può conciliare la prospettiva comunitaria, in materia di riforme istituzionali e di bilancio dell’eurozona, a cui è giunta adesso la Francia di Macron e quella intergovernativa a cui è ancorata la Germania della Merkel, restia a deflettere, in merito alla trasformazione dell’Esm in un Fondo monetario europeo, dalla sua dottrina tradizionale imperniata sulla “condizionalità” dei governi nazionali in ordine alle linee di credito da destinare eventualmente ai Paesi in difficoltà.
Per quanto attiene al secondo nodo da sciogliere, i progetti del presidente francese per una strategia omogenea nel campo della difesa e della sicurezza che valga a rilanciare la prospettiva di un’integrazione politica, devono vedersela sia con le tergiversazioni del governo tedesco di coalizione, sia con le remore opposte dai paesi del Nord a un aumento di risorse per il budget 2021-2027 che implichi investimenti più consistenti per i fondi di “coesione sociale”.
Ben sappiamo come l’itinerario dell’Europa sia stato contrassegnato, nel corso del tempo, da una sequenza di compromessi fra enunciazioni di principio e orientamenti pragmatici, tra fasi propulsive e battute d’arresto.
Tuttavia mai come in questo momento essa si trova alla prese con una serie di questioni cruciali: come, l’addio entro il prossimo dicembre della Bce dal Quantitative easing, che ha scongiurato nell’eurozona una grave crisi dei debiti sovrani dei Paesi più esposti per i loro disastrati conti pubblici e mantenuto poi bassi i tassi d’interesse; il rallentamento della congiuntura economica espansiva successiva alla crisi recessiva esplosa nel 2008; e l’avanzata pressoché dovunque di movimenti sovranisti e populisti, che sta incrinando la stabilità politica garantita finora dai partiti tradizionali di centro-destra e centro-sinistra.
Inoltre il consolidamento del Gruppo di Visegrad (in seguito al feeling con Varsavia e Budapest dell’Austria e della Slovenia) ha aperto una faglia fra l’Est e l’Ovest del Continente; mentre è divenuto ormai indispensabile e urgente che Bruxelles, per evitare una frattura fra Nord e Sud, ponga mano a una revisione del regolamento di Schengen, basata su una revisione del regolamento di Dublino, basata su un approccio multilaterale sia per la gestione dei flussi migratori extracomunitari (addossata finora per lo più all’Italia) sia per il controllo delle frontiere esterne dell’Europa meridionale.
Sono perciò lampanti non solo i rischi che corre l’Europa qualora non s’impegnasse a dovere per districare entro scadenze non più dilazionabili la matassa dei tanti nodi che l’aggrovigliano e ne hanno provocato l’immobilismo. Sono evidenti anche le sue difficoltà di reagire con altrettanta energia che efficacia alla sfida impostale dalle aggressive tendenze protezionistiche dell’America di Trump, per il resto sempre più orientata a spostare pure il baricentro della sua politica dall’Atlantico al Pacifico. A non contare le suggestioni che la Russia di Vladimir Putin sta esercitando su alcuni governi europei (fra cui il nostro), favorevoli a una revisione delle sanzioni della Nato nei riguardi di Mosca per l’annessione della Crimea.
Non rimane pertanto che sperare che s’imponga infine, a partire dal prossimo vertice di Bruxelles e in vista delle elezioni del maggio 2019, un vero e proprio “salto di qualità” dell’Europa.
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