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Ge “espulsa” dal Dow Jones, al suo posto Walgreens Boots Alliance

(Ap)
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New York - “RIP. Rest in peace”, “Riposa in pace”. Potrebbe essere questo l’epitaffio scritto ieri a Wall Street sulla General Electric. Perché di epitaffio si tratta. Era e non è più. Era un’icona della Borsa e della Corporate America. Un tempo ancora non lontano, negli anni Novanta, società leader per market value, riconoscimento che oggi spetta ad Apple. Adesso viene liquidata senza tanti complimenti dal Dow Jones, del quale era uno dei titoli originali - parliamo del 1896 - e dov’era anche il più antico dei suoi trenta componenti, membro ininterrotto del venerabile indice ormai per oltre 110 anni.

Ge sarà sostituita, ha annunciato ieri sera S&P Dow Jones Indices, la società che gestisce l’indice, da Walgreens Boots Alliance. Segno dei tempi, oltre che della saga di una conglomerata seppellita dalle crisi. La svolta vede un grande gruppo industriale in declino sostituito da un gigante, in ascesa, del largo consumo e della sanità. «Il cambiamento renderà l'indice una migliore misura dell’economia e del mercato azionario», ha detto asciutto David Blitzer, presidente S&P Dow Jones Indeces. Il terremoto nel Dow è paragonabile a quello avvenuto nel 2015, quando Apple entrò spingendo fuori un altro venerabile marchio, la AT&T. E si aggiunge ad altre espulsioni “industriali” eccellenti nella virata sempre più pronunciata verso il premio all’economia dei servizi e della tecnologia, nel 2009 quella di General Motors e nel 2013 di Alcoa.

Nel caso di Ge la cacciata dall’indice non è uno shock: da tempo si susseguivano le voci davanti a un protratto tracollo del valore di Borsa e delle performance del business. Nel giro dell’ultimo anno il titolo si è quasi dimezzato, bruciando oltre cento miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato (che oggi oscilla attorno ai 113 miliardi). Il gruppo, nei decenni sinonimo di lampadine, elettrodomestici e televisione, motori per aerei, centrali energetiche e servizi finanziari, è impegnato nell’ultima grande ristrutturazione, che potrebbe concludersi con un definitivo ridimensionamento e anche breakup delle attività.

Un portavoce di Ge ha ieri dichiarato semplicemente che l’espulsione dal Dow non cambia il ripensamento strategico in atto, «l’impegno a creare una più forte e semplice» azienda. Negli ultimi anni Ge ha già ceduto NbcUniversal nei media, drasticamente ridotto la divisione finanziaria massacrata dalla crisi del 2008 e venduto le ferrovie come parte di un nuovo piano di dismissioni per 20 miliardi entro fine 2019 sotto la guida del nuovo chief executive John Flannery, che ha affermato che “tutto è sul tavolo”. La Corporate America, certo, non è nuova a mettere del tutto in discussione gruppi considerati al tramonto in cerca di rinnovamento o nuova competitività. In pochi anni, accanto a celebri fusioni, si sono consumate spettacolari separazioni: Aol e Time Warner, la prima ora svanita in Verizon e la seconda assorbita da AT&T. Sara Lee, classe 1939, ha lasciato il posto alle anonime Hillshire e DE Master Blenders 1753. Alcoa ha scorporato l’astrusa Arconic. DowDuPont promette di dividersi in tre società quotate e Hilton l’ha già fatto. Kraft Foods ha staccato le attività internazionali prima di essere divorata da Heinz. Motorola ha dato vita a Solutions e Mobility, la seconda passata a Google e poi a Lenovo.

Ma la saga di Ge, per prestigio e dimensioni, resta oggi unica. Le originirisalgono a Thomas Edison e alle sue lampadine, che accesero la luce sulla Edison General Electric Company nel 1889. Del 1900 è il General Electric Research Laboratory, prima struttura industriale di ricerca nel Paese. Il gruppo fu pronto a impadronirsi del telegrafo di Marconi nel 1919 e a creare i network radiofonici della Rca e tv della Nbc, sperimentando trasmissioni sul piccolo schermo negli anni Venti. Sviluppò “superchargers” per i motori degli aerei tra le guerre mondiali. E si gettò sui computer negli anni Sessanta. Due suoi dipendenti sono stati insigniti di premi Nobel, nel 1932 e nel 1973.

Questa storia infinita non basta più. I nuovi vertici guidati da Flannery sanno di essere al cospetto di un dilemma epocale. Un dilemma salito alla ribalta con l’ultimo nodo venuto al pettine nei mesi passati: la scoperta di un imprevisto buco multimiliardario in attività assicurative - finito sotto inchiesta delle autorità - ma radicato in performance che languono e eccessivo gigantismo. In gioco è appunto una trasformazione in società snella, focalizzata su soli tre segmenti strategici: energia, tecnologie mediche e sanitarie, aeronautica. Oppure, se questo è poco, la rinascita nei panni di più d’una azienda quotata, con il sipario che cala davvero sull’antico gruppo.

Certo è, però, che sono sepolti gloria e eccessi che erano arrivati all’apice sul finire del secolo scorso sotto la gestione del leggendario super-manager Jack Welch. Aveva capitanato lui l’ultima aggressiva espansione di Ge nei panni di azienda-Pil, soprannome meritato per la diversificazione degli asset. Una strategia premiata, tra il 1981 e il 2001, da una marcia del 4.000% in Borsa. Da allora iniziò il declino, che il successore di Welch, Jeff Immelt, non è riuscito ad arrestare.

La nuova arrivata nel Dow, Walgreens, ha anch’essa una lunga seppur meno prestigiosa storia, con radici nel 1901 a Chicago e una espansione che l’ha vista nel 2014 unirsi all’europea Alliance Boots e rilevare catene di farmacie dalla concorrente Rite Aid. Oggi ha attività farmaceutiche e retail in 25 paesi e la sua market cap è attualmente attorno ai 64 miliardi.

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