Due anni dopo, le tendenze sono ormai chiare. Brexit non è ancora una realtà, la Gran Bretagna fa ancora parte integrante dell’Unione europea e tutti gli effetti legati alla decisione di uscire dalla Ue sono determinati dalle semplici aspettative, alle quali si aggiungeranno i costi e i benefici generati dai nuovi regimi commerciali. La base su cui si costruirà la nuova economia del Regno Unito inizia però a delinearsi bene.
La flessione strutturale della sterlina
Il primo effetto di Brexit è stato un pesante scivolone della sterlina. Una flessione era già in corso dal 2015, ma il referendum ha coinciso, semplificando un po’, con la variazione del valore di equilibrio della moneta britannica. Per anni il cambio effettivo della valuta di Londra - una media dei cambi verso le principali valute, ognuna con un peso diverso - ha oscillato attorno alla media di 84,5 (il valore di riferimento, 100, è riferito al 2005). Dopo il voto, si è invece mosso attorno a 77,9, con un picco a 81,2. È una svalutazione del 7,8%, piuttosto importante, che ha ridotto il prezzo delle esportazioni e aumentato quello delle importazioni.
Aumentano le esportazioni...
Non è una sorpresa, allora, il fatto che le esportazioni siano aumentate e abbiano accelerato fino a raggiungere un ritmo di crescita del 16% annuo che - senza sorprese e complice anche un modestissimo rialzo della valuta - si è presto stabilizzato. È un dato di fatto, in ogni caso, che l’accelerazione del dopo referendum abbia fatto balzare le vendite all’estero a un livello più alto rispetto al passato.
...e gli investimenti dall’estero
Analogamente sono aumentati gli investimenti diretti dall’estero. La flessione della sterlina ha reso tutti gli assets britannici più convenienti e molti stranieri ne hanno approfittato per acquisire attività. L’economia del Regno Unito resta e resterà in ogni caso piuttosto solida, resiliente e redditizia, e questa considerazione, insieme a prezzi “convenienti”, ha spinto molti investitori a non sopravvalutare troppo l’incertezza sul dopo Brexit.
In crescita anche le importazioni
Può sorprendere invece il fatto che siano aumentate le importazioni, ma in questo caso è l’effetto dell’aumento dei prezzi. La Gran Bretagna deve acquistare dall’estero beni e servizi la cui domanda evidentemente risponde relativamente poco ai prezzi. Il disavanzo corrente - la differenza tra esportazioni e importazioni - è quindi leggermente peggiorata. Prima del referendum si muoveva intorno a una media di 2,6 milioni di sterline al mese, dopo si è invece attestato intorno ai 2,9 milioni.
Brusco rialzo dell’inflazione
L’aumento delle importazioni può far sospettare che abbiano prevalso gli effetti sul reddito. L’inflazione è sicuramente aumentata, e di molto. Al momento del referendum la Gran Bretagna era ancora in una situazione di lowflation: la crescita dei prezzi era dello 0,8% annuo. Il balzo è stato rapido, e da molti non previsto (l’evoluzione peggiore possibile): a febbraio 2017 l’inflazione aveva raggiunto il 2,3%, a settembre il 2,8%. Da allora si è leggermenta raffreddata, ed è attualmente al 2,4%, in ogni caso al di sopra dell’obiettivo del 2%.
Salari reali sotto pressione
Il risultato è stata una progressiva compressione dei salari reali, che hanno interrotto la loro crescita e hanno registrato anche qualche passo indietro : da febbraio 2017 - il mese in cui l’inflazione ha superato l’obiettivo del 2% - sono calati del 2,5% e mancano segni di una ripresa. Non sono tornati ai livelli pre-voto - la produttività è salita, nei mesi immediatamente successivi al voto - e questo può spiegare perché manca ancora una chiara e diffusa percezione degli effetti del referendum.
La disoccupazione è ai minimi...
Allo stesso modo, non si sono avvertiti grandi contraccolpi sulla disoccupazione, che ha continuato a calare allo stesso ritmo dei mesi precedenti - il trend è iniziato nel 2011 ed ha accelerato nel 2013 - salvo poi stabilizzarsi a livelli decisamente molto bassi, il 4,2%, sotto i quali difficilmente si potrà scendere: è il minimo dal 1975.
...ma la crescita rallenta
L’ulteriore della disoccupazione è stata possibile perché l’economia ha comunque continuato a crescere. Il rallentamento del prodotto interno lordo è però evidente. Non è iniziato con il referendum, ma nel 2015 - in coincidenza con la prima fase di flessione della sterlina - e anzi ha conosciuto una momentanea accelerazione nel terzo e nel quarto trimestre del 2016, nei sei mesi successivi al voto. Nel primo trimestre del 2018, il pil era però cresciuto del solo 1,2% rispetto all’anno precedente mentre l’incremento trimestrale - usata normalmente per queste statistiche - era pari allo 0,1 per cento.
Investimenti difficili
Difficile che si tratti dell’effetto di una politica monetaria restrittiva. La Bank of England ha portato i tassi allo 0,5%, un livello ancora ampiamente espansivo. Ha inciso il freno del commercio estero, mentre i consumi continuano a muoversi lentamente e le spese pubbliche non riescono a compensare il rallentamento delle altre componenti. Gli investimenti, in particolare, appaiono freddi. Scavando nelle statistiche, il dato più significativo è allora la flessione, relativa sul lungo periodo, ma piuttosto evidente almeno a partire dal 2017 - in coincidenza con l’aumento dell’inflazione - delle costruzioni non abitative: infrastrutture pubbliche e private, centri commerciali e produttivi.
Gli effetti dell’incertezza
È il segno, questo, di un’economia in cui prevale l’incertezza. Come previsto dalla teoria economica, la flessione della sterlina ha spinto le esportazioni ma anche i prezzi, saliti a livelli non previsti. I salari reali sono stati compressi e le prospettive per l’economia si sono oscurate. Gli investimenti ne hanno risentito e, tra questi, proprio quelli che si traducono nella creazione di nuovi sedi produttive.
© Riproduzione riservata