Mentre rafforza i legami economici con i Paesi dell’Europa orientale e balcanica, la Cina rassicura e blandisce l’Unione Europea, proponendosi come alfiere della cooperazione internazionale e dei liberi commerci nel tentativo di stabilire un fronte comune - in vista delle guerre commerciali scatenate da Donald Trump - al prossimo vertice bilaterale del 16-17 luglio a Pechino.
A margine del summit «16+1» a Sofia, il premier Li Keqiang ha lanciato due precisi messaggi all’intera Europa.
Anzitutto, Li ha assicurato che la Cina aprirà maggiormente il suo mercato a prodotti e investimenti stranieri, anche attraverso una complessiva riduzione dei dazi. In secondo luogo, ha sottolineato che Pechino è in favore di una «Europa unita e prospera e di un euro forte» e che il controverso format «16+1» (summit annuali della Cina con 11 Paesi membri della Ue e 5 aspiranti)va inquadrato negli sforzi di promozione dell’integrazione europea e non intende essere divisivo: «Un’Europa indebolita sarebbe una cattiva notizia per noi».
Per molti osservatori, Pechino trova nella linea della Casa Bianca - che sembra considerare l’Europa un concorrente economico da indebolire anche politicamente - un’occasione unica per allentare ulteriormente i tradizionali legami transatlantici e proporsi come interlocutore affidabile. Il paradosso è che molte delle ragioni alla base degli irridigimenti dell’Amministrazione Usa verso la Cina - dal tema della proprietà intellettuale a quelli dell’accesso al mercato e delle sovracapacità produttive - sono ampiamente condivisi a Bruxelles. Ma l’applicazione indiscriminata che Trump fa del principio «America First» potrebbe finire per ammorbidire di molto le resistenze europee alle lusinghe cinesi. Si profilano dunque una decina di giorni cruciali: da Sofia, Li si reca oggi in Germania per tentare di accelerare il successo del successivo vertice con la Ue che coinciderà con l’incontro tra Trump e Putin. Nel mezzo, ci sarà il delicato vertice Nato, nello stesso giorno in cui forse Trump sarà irritato dalla firma dell’accordo di libero scambio tra la Ue e il Giappone. La situazione internazionale mette sulla difensiva le correnti di opinione - a Bruxelles, Berlino e altrove - che temono l’aumento di una influenza cinese che dall’offerta di carote economiche a Paesi piccoli e medi - oltretutto in termini a volte poco trasparenti e non rispettose di normative europee, con il rischio di un carico di eccessivo indebitamento - può passare a un peso politico. Anche su questi versanti emerge l’abilità diplomatica cinese.
Ieri Li ha detto di esser pronto a finanziare un Global Partnership Centre a Sofia che aiuti le società cinesi a comprendere le normative europee. E nell’offrire fondi per 1,5 miliardi di euro per iniziative infrastrutturali alla Bulgaria, ha detto che sarebbe benvenuto il coinvolgimento di organizzazioni e banche internazionali, ad esempio per l’alta velocità ferroviaria tra i porti del Mar Nero e quello greco di Salonicco. Una nuova Via terrestre della Seta comincia a materializzarsi nei Balcani con altre iniziative, come il progetto di una nuova ferrovia tra Budapest e Belgrado e un’autostrada tra Belgrado e il porto Montenegrino di Bar.
Negli ultimi anni, Paesi come Ungheria e Grecia hanno bloccato risoluzioni europee critiche verso Pechino. Qualche volta, la Ue non ha mostrato un volto benevolo. L'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis nelle sue memorie («Adults in the room: my battle with Europe's deep establishment») racconta ad esempio che, per guadagnare tempo a fronte di scadenze debitorie nel marzo 2015, riuscì a coinvolgere i cinesi promettendo la gestione dell'intero Pireo e delle ferrovie. In cambio, chiedeva acquisti di titoli di Stato a breve. Strappò la promessa di acquisti di T-Bills per 1,5 miliardi di euro, che alla fine si ridusse però a 200 milioni. Secondo Varoufakis, qualcuno telefonò da Berlino a Pechino, sconsigliando ai cinesi di immischiarsi nelle faccende greche.
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